La postura cinese in Medio Oriente, tra ambiguità calcolata e influenza emergente
Medio Oriente e Nord Africa

La postura cinese in Medio Oriente, tra ambiguità calcolata e influenza emergente

Di Alessio Stilo
07.08.2025

Negli ultimi anni, la Repubblica Popolare Cinese ha intensificato significativamente il proprio coinvolgimento in Medio Oriente, abbandonando gradualmente l’approccio attendista che l’aveva contraddistinta nel decennio precedente. In un contesto segnato dal conflitto israelo-iraniano e dalla crescente erosione dell’influenza statunitense, Pechino ha adottato una strategia multilivello, finalizzata a tutelare i propri interessi energetici, consolidare la Belt and Road Initiative (BRI) e accreditarsi come attore globale equilibrato e responsabile.

La centralità energetica della regione per l’economia cinese è confermata da numeri di un certo rilievo: circa il 40% del petrolio importato da Pechino proviene dal Medio Oriente, quota destinata ad aumentare entro il 2035. Siffatta dipendenza ha reso la sicurezza dei chokepoint marittimi, in particolare lo Stretto di Hormuz e il Mar Rosso, una priorità strategica per la Cina, che ha reagito alle crescenti turbolenze con una politica di diversificazione sia delle rotte che dei fornitori, ampliando i rapporti con le monarchie arabe del Golfo e con i Paesi dell’Asia Centrale.

Sul piano economico, il legame tra Pechino e le economie regionali si è intensificato: nel 2024 gli scambi con l’Arabia Saudita hanno superato i 107 miliardi di dollari, mentre quelli con Israele hanno raggiunto i 16,27 miliardi. A** fianco degli investimenti energetici, Pechino ha promosso progetti infrastrutturali di vasta portata, come la ferrovia pan-emiratina Etihad Rail, oltre a incentivare la cooperazione nei settori tecnologici** (5G, AI, energie rinnovabili) e finanziari, con l’espansione dell’uso dello yuan negli scambi commerciali.

In parallelo, la Cina ha mantenuto una postura diplomatica ambivalente, evitando prese di posizione unilaterali anche durante le fasi di escalation. Se da un lato ha condannato le operazioni israeliane a Gaza, dall’altro ha criticato la rigidità ideologica dell’Iran, sanzionato alcune sue pratiche e al contempo sostenuto la ricostruzione delle sue capacità militari. Questa ambivalenza riflette una strategia più ampia volta a evitare il crollo di Teheran, che rappresenta un partner energetico e un nodo logistico della BRI, senza peraltro compromettere i rapporti con le monarchie sunnite e con Israele.

Nel complesso, la strategia mediorientale della Cina è frutto di un bilanciamento calibrato tra esigenze strutturali e ambizioni geopolitiche. Pechino sembra volersi proiettare come garante della stabilità globale e promotore di un ordine multipolare, senza tuttavia assumersi costi e rischi eccessivi sul piano militare. In questa prospettiva, il quadrante mediorientale svolge una funzione triplice: fonte energetica indispensabile, laboratorio per la proiezione internazionale della BRI e piattaforma di test per il soft power cinese.

Uno dei cardini di questa postura è la distinzione sistematica tra retorica e azione: Pechino mantiene un linguaggio fortemente critico verso le politiche occidentali, in particolare statunitensi e israeliane, ma si astiene da interventi diretti, preferendo canali multilaterali e strumenti economici. Questo modus operandi ha permesso alla Cina di presentarsi tanto alla stregua di sostenitore della causa palestinese quanto come partner commerciale e tecnologico affidabile per Israele.

Il caso israeliano rappresenta in effetti un banco di prova emblematico. Nonostante le pressioni americane, la Cina ha continuato a investire nel Paese e a rafforzare i legami bilaterali in settori strategici come innovazione, agritech, sanità e cybersicurezza. Questo riavvicinamento, in parte motivato dalla percezione cinese del progressivo indebolimento dell’Iran e del logoramento dell’“Asse della Resistenza”, mira a posizionare Pechino come arbitro credibile tra attori rivali, sfruttando l’ambiguità per ampliare lo spazio di manovra negoziale.

Anche nel rapporto con Teheran emergono note di pragmatismo. L’accordo di partenariato strategico venticinquennale firmato nel 2021 (del valore teorico di 400 miliardi di dollari) è rimasto in gran parte inattuato, segno della riluttanza cinese a esporsi eccessivamente in un contesto instabile. Nonostante ciò, la Cina continua a importare grandi volumi di petrolio iraniano a prezzi ribassati, utilizzando canali finanziari non convenzionali e valute alternative, a vantaggio delle proprie industrie energetiche. In cambio, Pechino offre a Teheran sostegno politico nei consessi internazionali, trasferimento di tecnologie dual-use (droni, materiali per missili balistici) e collaborazione navale.

A livello regionale, la Cina ha saputo capitalizzare il vuoto lasciato dal parziale disimpegno statunitense, proponendosi come facilitatore negoziale, come dimostrato dal ruolo nella normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran nel 2023. Questa iniziativa ha consolidato l’immagine di Pechino come attore terzo, svincolato dalle alleanze tradizionali, in grado di favorire una diplomazia multipolare.

L’attrattività cinese presso le élite arabe risiede anche nella promessa di una cooperazione priva di condizionamenti politici, in contrasto con l’approccio occidentale. Le monarchie del Golfo, in particolare, hanno risposto positivamente: l’adozione dello yuan come valuta negli scambi energetici, la crescente presenza di Huawei nello sviluppo digitale e la partecipazione cinese ai megaprogetti sauditi (come NEOM) testimoniano un riallineamento strategico. La decisione dell’Arabia Saudita di introdurre la lingua mandarina nel sistema scolastico nazionale assume una valenza simbolica ma indicativa della volontà di approfondire i legami culturali.

Nondimeno, la tendenziale espansione dell’influenza di Pechino in Medio Oriente non è esente da rischi. Le imprese cinesi incontrano ancora ostacoli normativi e culturali nei mercati locali, mentre le tensioni geopolitiche (in particolare la guerra tra Israele e Iran e le frizioni con gli Stati Uniti) pongono limiti alla capacità di Pechino di mantenere un profilo neutrale. In alcuni Paesi, la questione uigura rappresenta un elemento di frizione latente. Inoltre, molti partenariati restano ancora sbilanciati sul piano finanziario (in favore di Pechino) e scarsamente integrate nei tessuti produttivi locali (dei Paesi dell’area), suggerendo che la profondità della presenza cinese sia ancora in fase embrionale.

Dal punto di vista sistemico, l’eventuale estensione ulteriore dell’ascendente cinese potrebbe portare alla moltiplicazione di standard alternativi nei settori tecnologici, infrastrutturali e normativi. Se la Cina riuscirà a promuovere efficacemente i propri modelli attraverso istituzioni come i BRICS+ e l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), al netto delle criticità connesse alla “trappola del debito”, il Medio Oriente potrebbe trasformarsi in un nuovo spazio competitivo tra modelli di governance paralleli, in cui Pechino esercita un’influenza crescente ma non ancora egemone.

La strategia cinese in Medio Oriente si configura come una sintesi sofisticata tra ambizione e cautela: Pechino agisce auto-rappresentandosi come forza ordinatrice silenziosa, capace di dialogare con ogni attore locale senza schierarsi apertamente con nessuno. La sua postura, orientata al pragmatismo, le consente di perseguire obiettivi di lungo termine (energia, commercio, status) adattandosi rapidamente a uno scenario in mutamento. La principale sfida per un simile atteggiamento consiste nel mantenere questa ambivalenza in un contesto sempre più polarizzato. Le prossime evoluzioni, in specie l’esito delle tensioni israelo-iraniane, la traiettoria delle politiche statunitensi e l’equilibrio interno delle monarchie del Golfo, determineranno se Pechino sarà in grado di consolidare l’auto-percepito status di mediatore globale o se sarà costretta a ridefinire la propria postura per evitare fratture con i suoi partner mediorientali.