La difesa e la dissuasione nella strategia marittima iraniana
Asia e Pacifico

La difesa e la dissuasione nella strategia marittima iraniana

Di Giulia Daga
17.09.2017

Secondo lo studioso di strategia Sir Julian Corbett “una potenza troppo debole per vincere il controllo [del mare] con operazioni offensive, può tuttavia riuscire a mantenere tale controllo in disputa assumendo un generale atteggiamento difensivo”[1], il quale si esplica attraverso la costruzione di una credibile flotta deterrente e/o mediante l’utilizzo di approcci di sea denial, in questo modo impedendo alla potenza di forza superiore di esercitare il controllo del mare in maniera efficace. Questa definizione, per quanto risalente al 1911, ben inquadra il movente dietro allo sviluppo navale iraniano, focalizzato, dal 1979 ad oggi, su una strategia marittima difensiva, basata prevalentemente sulla dissuasione e su approcci asimmetrici.

La scelta iraniana di optare per un atteggiamento difensivo è largamente dovuta alla scarsa disponibilità di mezzi navali, ancora oggi principalmente costituiti da piccoli pattugliatori e unità costiere, mentre la maggior parte delle grandi navi di superficie risalgono ancora al periodo pre-rivoluzionario. Questo genere di approccio trova legittimazione e conferma anche nella cultura strategica iraniana. Le strategie delle grandi potenze mondiali (l’impero russo prima, poi l’impero britannico e infine gli Stati Uniti) hanno nel tempo contribuito a insidiare l’indipendenza politica iraniana, il cui mantenimento è dunque divenuto una pietra miliare della mentalità strategica nazionale, attraverso un’attenzione costante alla sicurezza interna e alla propria autonomia in politica estera. Tutto ciò si è esplicato, e continua ad esplicarsi, in un generale approccio di tipo difensivo e dissuasivo volto a scoraggiare ulteriori interventi esterni.

L’appartenenza sciita è un altro elemento fondamentale per comprendere la centralità della difensiva nella cultura strategica iraniana. Il martirio e la sconfitta ingiusta sono fattori chiave della tradizione sciita, che li fa risalire all’uccisione di Hussein -uno dei due figli di Ali- e alla sconfitta durante la Battaglia di Karbala del 680. La tradizione sciita, che ricorda il martirio di Karbala nell’annuale festa dell’Ashura, individua infatti in tale sconfitta la prova della validità della propria fede, che otterrà vendetta nell’aldilà per le prevaricazioni subite durante la vita terrena. Questo tipo di atteggiamento ben si inquadra nella tipica “strategia del debole”, definita nel campo degli studi strategici come quell’approccio seguito dalla forza di inferiore potenza che cerca lo stallo e l’usura dell’avversario attraverso mezzi non convenzionali e asimmetrici. Un chiaro esempio di questo parallelismo tra cultura sciita e approcci strategici è fornito dalla guerra Iran-Iraq, quando la propaganda iraniana dipingeva la guerra come “Sacra Difesa” o “Guerra Imposta”, ponendo l’accento sul sacrificio e sul martirio per la patria, per esempio attraverso diversi attacchi suicidi noti con il nome di “Operazioni Karbala”.[2]

L’elemento culturale è dunque importante per comprendere come la strategia iraniana, e in particolare quella marittima, si sia focalizzata sullo sviluppo della IRGCN -la Marina delle Guardie Rivoluzionarie- in termini non convenzionali e asimmetrici. Durante la guerra Iran-Iraq, infatti, la IRGCN concretizzò e saldò la propria strategia attraverso azioni di guerriglia navale nel corso della fase nota come Tanker War (Guerra delle petroliere), in cui l’Iran cercò di stroncare le capacità di resistenza irachene attraverso l’attacco ai rifornimenti marittimi e al commercio internazionale. Da quel momento, la strategia dei mezzi iraniana si è focalizzata sullo sviluppo di piccole unità costiere in grado di depositare facilmente mine, su missili anti-nave di provenienza prevalentemente cinese, russa o nord-coreana, e su sottomarini di tipo midget (classe Yono e Ghadir), piccoli e lenti ma in grado di operare nelle acque poco profonde del Golfo. Questo tipo di mezzi, incentrati su tattiche di tipo “hit-and-run”, sono particolarmente efficaci negli approcci A2AD -anti-access/area denial-, volti ad impedire un utilizzo incontrastato dell’ambiente marittimo da parte dell’eventuale forza opponente.

Parallelamente a ciò, l’Iran non ha smesso di promuovere anche la propria Marina tradizionale (IRIN) risalente al periodo pre-rivoluzionario, la quale è rimasta legata allo sviluppo di mezzi e metodi di combattimento convenzionali, focalizzandosi sullo sviluppo dell’influenza regionale iraniana e delle partnership strategiche. In questo ambito, la consapevolezza della propria debolezza ha portato la Marina convenzionale a concentrarsi sull’aspetto dissuasivo in maniera diversa rispetto alla IRGCN, combinando cioè la costruzione di una fleet-in-being con lo sviluppo di un’attenta diplomazia navale.

Per fleet-in-being, o flotta in potenza, si intende un approccio strategico basato sulla capacità, da parte di una forza navale “debole” -in maniera assoluta o relativa ad una determinata area- di suscitare un credibile senso di minaccia nella forza avversaria di superiore potenza, in questo modo dissuadendola dal compiere eventuali azioni offensive. Ai tempi delle grandi battaglie navali, l’obiettivo di un simile approccio era quello di posticipare la decisione finale, paralizzando le mosse nemiche nell’attesa di una condizione più favorevole. In tempo di pace, o di guerra latente, la fleet-in-being acquista un valore deterrente ancora maggiore, dato da una parte dall’esistenza stessa della flotta -si veda la Teoria del Risiko formulata dall’Ammiraglio Tirpitz-, e d’altra parte dal suo impiego in mare sotto la forma di azioni di presenza o diplomazia navale. In questo secondo caso il concetto di fleet-in-being è considerato dunque non nel suo senso più statico, quanto piuttosto in una sua applicazione più attiva e dinamica. Quel tipo di diplomazia navale identificata da Harold Kearsley come “influenza navale”, volta a “dissuadere attraverso una dimostrazione di potenza”[3], coincide effettivamente con gli obiettivi della fleet-in-being, dal momento che entrambi i concetti si focalizzano sull’effetto psicologico suscitato, piuttosto che sulle capacità effettive di una flotta o di un’unità navale. L’obiettivo di questo tipo di presenza, difatti, è legato essenzialmente al tipo di visibilità politica suscitata, e questo può essere pienamente raggiunto a prescindere dalla propria forza complessiva.

Con le dovute differenze, un tale approccio ben si inserisce nello sviluppo della strategia marittima iraniana. Consapevole di una sempre maggiore presenza USA nel Golfo Persico dalla fine del XX secolo -la V Flotta americana fu ufficialmente ricostituita nel 1995-, l’Iran ha concepito una strategia generale volta ad evitare un confronto diretto con gli Stati Uniti, costruendo le proprie forze convenzionali (o piuttosto concentrando la propaganda sulla costruzione delle proprie forze) in modo da elevare il costo di un intervento americano quanto basti per scoraggiarlo. Effettivamente, in uno scontro diretto con gli Stati Uniti, l’IRIN crollerebbe già nelle prime fasi, come durante l’Operazione Praying Mantis del 1988, attuata dagli Stati Uniti in risposta agli attacchi iraniani contro le petroliere, che risultò essere disastrosa per la già esigua forza navale iraniana. Conscia della propria debolezza in un conflitto diretto, l’IRIN si è dunque focalizzata sull’aspetto dissuasivo, cercando di rendere ben visibile il tentativo di sviluppare una marina d’alto mare (Blue Water). Nel fare ciò, l’Iran sta seguendo il tipico obiettivo della fleet-in-being in tempo di pace, cioè quello di dimostrare le proprie capacità di proiezione di forza mediante visite a porti stranieri. L’invio degli incrociatori Alvand (nel 2011) e Shahid Qandi (nel 2012) e della nave da trasporto Kharg nella base navale russa di Tartus sono stati infatti in linea con questa strategia. Ancora più recentemente, il dispiegamento di forze dell’IRIN in Sri Lanka, in Sudan e nel Mediterraneo è andato nella stessa direzione. Nel 2013, inoltre, navi da guerra iraniane, per la prima volta nella storia dell’IRIN, hanno solcato l’Oceano Pacifico, con una visita al porto di Zhangjiang, in Cina.

Il principale messaggio di questo tipo di visite è quello di dimostrare come la flotta iraniana sia ben mantenuta e in grado di essere usata in futuro. Sempre in quest’ottica va visto il coinvolgimento iraniano nelle missioni di sicurezza della navigazione nel Golfo di Aden in funzione anti-pirateria, partecipazione iniziata nel 2008 ed incrementata nell’ultimo anno. Il dispiegamento di 20 000 uomini della Marina iraniana nella regione del Makran (tra il Golfo Persico e il Golfo di Oman), per supportare lo sviluppo della zona costiera dell’area, consegue d’altronde lo stesso obiettivo, cioè mostrare una cospicua presenza navale iraniana intorno allo stretto di Hormuz. Ovviamente una strategia dissuasiva ha effetto solo se si è in grado di mostrarsi abbastanza credibili da spingere i propri avversari a credere al “bluff”, dal momento che l’Iran sopravviverebbe solo alle prime fasi di uno scontro reale contro gli USA e i propri alleati. D’altra parte, nei confronti dei vicini arabi l’Iran potrebbe utilizzare con efficacia le proprie forze navali nel caso di un conflitto limitato.

L’Iran detiene infatti la marina più potente del Golfo (dopo il collasso del sistema statale iracheno post-2003) e, seppur la combinazione delle forze del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) siano il doppio di quelle iraniane, la mancanza di una coerente strategia cooperativa di sicurezza priva i paesi arabi del Golfo di un credibile contrappeso. Per questo motivo essi si affidano largamente agli Stati Uniti (e in misura minore ad Europa, India e Cina) nel campo della sicurezza marittima, privilegiando la cooperazione bilaterale piuttosto che un coerente approccio collettivo. Naturalmente l’Iran ha tutto l’interesse nel mantenere alte le divisioni nel campo della sicurezza, cercando di sviluppare la propria influenza in maniera bilaterale. L’Iran ha infatti ottimi rapporti commerciali e nel campo della sicurezza con il Sultanato dell’Oman, la cui cooperazione in campo militare risale agli anni 60-70, e con cui nel 2010 ha siglato un accordo di sicurezza anti-pirateria e anti-contrabbando marittimo. Anche il Qatar ha sviluppato importanti relazioni in campo economico con l’Iran, con il quale condivide il giacimento marittimo di gas North-Dome/South-Pars. Inoltre, a seguito del progressivo isolamento del Qatar rispetto agli altri membri del CCG, le relazioni tra i due paesi si sono intensificate, il cui chiaro esempio è il supporto alimentare aereo e marittimo che l’Iran sta compiendo in questi giorni, contravvenendo all’ embargo di Arabia Saudita, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti. D’altra parte, proprio Arabia Saudita, EAU (in particolare l’emirato  di Abu Dhabi) e Bahrain sono i più diffidenti nei confronti dell’Iran, sia per motivi legati alle minoranze religiose che per le rivalità per l’egemonia regionale. Queste differenze nei rapporti con l’Iran, esacerbate dai non risolti contenzioni territoriali all’interno del CCG stesso, e dalla pretesa dell’Arabia Saudita di ergersi in una posizione di supremazia, hanno portato il Consiglio di Cooperazione del Golfo ad uno stallo totale nel campo delle politiche di sicurezza comune. Emblematica in questo senso è l’omissione totale della questione securitaria dal testo dello statuto del CCG -un fatto curioso visto che il movente principale per la nascita del Consiglio nel 1981 era proprio la sicurezza regionale in chiave anti-Iran-.

Tenendo a mente queste differenze, è chiaro come una strategia marittima comune sia un obiettivo piuttosto chimerico per il CCG. Per quanto la spesa militare dei singoli paesi abbia superato di gran lunga quella iraniana nel corso dell’ultimo decennio, le marine del CCG si stanno tutte prevalentemente concentrando sullo sviluppo di pattugliatori costieri, unità anti-mine (MCMV) e capacità anti-missili, segno di un’attenzione pressoché totale alla semplice difesa dei propri confini. Nel caso di un’ escalation, invece, i paesi del CCG si troverebbero del tutto dipendenti da un eventuale intervento esterno statunitense. Il problema principale della mancanza di una coerente strategia comune è il fatto che i paesi arabi del Golfo stanno tutti sviluppando lo stesso tipo di assetti, invece di prediligere una politica degli armamenti condivisa, in modo da costruire una forza più completa ed efficace. A questo proposito, i messaggi provocatori iraniani in campo marittimo, con la confisca frequente di navi straniere nelle proprie acque territoriali, se da una parte stanno portando ad un’ escalation nelle spese militari dei paesi del Golfo dalle possibili conseguenze spiralizzanti, d’altra parte stanno dimostrando l’efficacia della propria strategia marittima. L’applicazione del principio del divide et impera nei confronti dei paesi arabi, unito ad un generale approccio dissuasivo nei confronti degli Stati Uniti, sembra infatti nel complesso efficace, così contendendo alla principale potenza marittima mondiale ed ai suoi alleati arabi di esercitare un effettivo controllo indiscusso del mare nel Golfo Persico e nel Golfo di Oman.

[1]Corbett J. S., Some Principles of Maritime Strategy, p. 98, Filiquarian Publishing, LLC: Qontro, 1911.

[2]Abrahamian E.,  A History of Modern Iran, p. 176 , Cambridge University Press: Cambridge, 2008.

[3] Kearsley H., ll potere marittimo ed il XXI secolo, Roma, Edizioni Forum di Relazioni Internazionali, 1998, p. 146.

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