Israele quater: prospettive e scenari post-voto
Medio Oriente e Nord Africa

Israele quater: prospettive e scenari post-voto

Di Giuseppe Dentice
23.03.2021

Quattro elezioni in 24 mesi e ancora tanta incertezza all’orizzonte. In attesa di capire cosa emergerà concretamente dallo spoglio – rallentato dalle procedure Covid-19 – Israele si trova ancora una volta alle prese con la necessità di una conta dei voti per garantirsi un esecutivo forte e in grado di governare, senza dover ricorrere a soluzioni tampone che assicurerebbero un cabotaggio di breve periodo senza garantire quella stabilità tanto agognata dallo stesso elettorato israeliano.

Quasi il 90% dei voti spogliati mostrano il Likud, formazione conservatrice espressione del Premier in carica Benjamin Netanyahu, quale vincitore e partito di maggioranza relativa con 30 seggi – in calo rispetto ai 36 del precedente turno –, seguito a distanza dal centrista Yesh Atid di Yair Lapid, con 17 scranni. Rispetto ai sondaggi delle scorse settimane, sia Kahol Lavan (8 seggi) dell’ex Ministro della Difesa Benny Gantz, sia i partiti di centro-sinistra e sinistra, rispettivamente Labor (7) e Meretz (5), dovrebbero essere riusciti a migliorare i propri precedenti risultati. Male invece New Hope (6) dell’ex Likud Gideon Saar, che ha confermato la sua intenzione di rimanere all’opposizione, così come Yisrael Beitenu (7) di Avigdor Lieberman. In discesa invece la Joint List (6 seggi e in calo di 9 rispetto al 2020), cartello di partiti arabi indebolito al suo interno dall’uscita di Raam (che ne avrebbe conquistati 6) e dalla bassa partecipazione popolare (67,2%, il valore più basso dal 2013), specie tra gli arabo-israeliani. Quel che emerge come dato elettorale è la forte frammentazione, che inciderà di fatto nella creazione di una coalizione di governo. Allo stato attuale, la coalizione di centrodestra guidata dal Primo Ministro uscente Netanyahu (52 seggi al momento) otterrebbe una maggioranza solo con il supporto del partito Yamina di Naftali Bennett (7) e con il supporto esterno del partito arabo conservatore Raam.

In attesa, quindi, dei risultati ufficiali e definitivi, che potrebbero comunque giungere nei prossimi giorni, il voto del 23 marzo ha fornito una serie di indicazioni molto interessanti che fotografano in maniera plastica quelle trasformazioni avvenute nella politica e nella società israeliana, almeno, nel corso dell’ultimo decennio.

Innanzitutto, il voto conferma ancora una volta la vittoria del Premier uscente Benjamin Netanyahu. Un successo più personale che di partito, dovuto soprattutto al costante ricorso alla personalizzazione delle elezioni. Come sottolineato da diversi commentatori, il quarto turno elettorale israeliano è stato un referendum sulla leadership di Netanyahu, che, seppur indebolito dall’ombra dei processi a suo carico, è riuscito ancora una volta a sfruttare il contesto politico interno e diplomatico israeliano per trasformare una situazione contraria in un punto a suo favore. Questo stallo è infatti il risultato del rifiuto di Netanyahu di dimettersi dalla carica, nonostante le accuse pendenti di corruzione e frode. Netanyahu aveva promesso in campagna elettorale ampie riforme sul versante giustizia nel tentativo di sensibilizzare il suo elettorato, ma soprattutto per impedire qualsiasi sviluppo nei processi a suo carico. Questa decisione si inserisce in un contesto che continua a dividere il blocco di destra, mantenendo Netanyahu al potere ininterrottamente negli ultimi dodici anni e disperdendo elettori e partiti, sempre meno interessati ad un voto ideologico, ma intenzionati a sostenere o a boicottare le scelte personalistiche del Primo Ministro. In questa prospettiva, Netanyahu ha giocato forte su due grandi impegni, tramutati dalla narrazione del Premier in successi personali del leader: da un lato la strapagata campagna vaccinale, con i risultati positivi anche in termini elettorali, dall’altro gli Accordi di Abramo e i gli impegni tattici e strategici assunti con una parte del mondo arabo (soprattutto Emirati Arabi Uniti, Bahrain e indirettamente con Arabia Saudita) in un’ottica anti-turca e anti-iraniana. Presentandosi come l’unico e vero statista in grado di proteggere il Paese dalle minacce interne (Covid-19) ed esterne (l’Iran), il Premier non ha fatto altro che conservare il modello del “Mr. Security” per ottenere legittimità interna e guadagnarsi dei crediti importanti da rivendersi in chiave elettorale. Ciononostante, lo spoglio non confermerebbe a Netanyahu la possibilità di governare, tanto che lo stesso Premier uscente ha paventato l’ipotesi di un quinto ritorno alle urne se dovessero mancare i voti in favore della coalizione, intravedendo in ciò un’opzione strategicamente più vantaggiosa. Tale considerazione è basata sul fatto che il campo anti-Netanyahu è composto da partiti ideologicamente molto eterogenei e con nessuna ipotesi di governabilità senza l’inclusione del Primo Ministro. Infatti, Saar e Lapid hanno – almeno ufficialmente – smentito qualsiasi ipotesi di ingresso in un governo con Netanyahu, ma la loro profonda distanza su diversi temi impedirebbe la creazione di un’alternativa valida anche a causa della frammentazione esistente nel blocco delle opposizioni. Un aspetto evidente anche nel centro e nella sinistra. Nonostante Meretz e Labor possano riportare un risultato accettabile non sono in grado di farsi portavoce di un’istanza differente rispetto alla linea governativa vigente dal 2009 ad oggi. A ciò si aggiunga la spaccatura nel fronte arabo-israliano: l’uscita di Raam dalla Joint List ha frammentato il voto della minoranza (che rappresenta il 20% della popolazione totale) e indebolito il peso della stessa nelle dinamiche politiche e istituzionali come invece nel recente passato. Questa decisione, congiuntamente alle violenze endemiche contro le comunità arabe presenti nel Paese e alle aperture di Mansour Abbas, leader di Raam, rispetto a un possibile coinvolgimento nel governo con la destra di Netanyahu – sebbene sia difficile identificare una convivenza tra forze partitiche come Yamina e Religious Zionist agli opposti rispetto a Raam) – ha creato un contesto di profonda sfiducia, in particolar modo nell’affluenza popolare degli arabi di Israele.

Altresì, l’infinita impasse politica israeliana è in parte dovuta al peculiare sistema elettorale del Paese, che in virtù del suo proporzionale puro non facilita le aggregazioni e la governabilità, lasciando ai partiti più piccoli una grande capacità di influenzare la maggioranza e le azioni politiche delle coalizioni. Quest’ultimo fattore apre un ulteriore aspetto di riflessione legato alla volatilità dell’elettorato israeliano e al variegato fronte di destra parlamentare, a cominciare dal ruolo cruciale di Yamina. Benché definito in campagna elettorale come un leader fallimentare, Bennett non ha di fatto chiuso alcuna ipotesi all’entrata in maggioranza, rimanendo in una voluta ambiguità politica. Quel che potrebbe sbloccare l’interesse dell’ex Ministro dell’Istruzione sono i possibili beneplaciti su alcune battaglie politicamente importanti per Yamina: colonie e annessione della Cisgiordania. Riconoscimenti in questi dossier rafforzerebbero il fronte di destra della coalizione, che si andrebbe a completare con i voti sicuri in favore delle componenti religiose ortodosse (Shas e Torah) e con l’ingresso in maggioranza del partito Religious Zionist, portatore di posizione estremiste dichiaratamente razziste e omofobe. Chi rischia maggiormente quindi è proprio Bennett: se dovesse entrare nel governo potrebbe vedersi prosciugato un buon serbatoio di voti in favore di competitor più estremi, come appunto Religious Zionist. Non meno rilevante però è il peso dell’elettorato ortodosso che fornisce circa un quarto dei voti della coalizione e rappresenta politicamente una forza sociale importante tanto da condizionare il governo. Nel corso dell’anno, con gli effetti sanitari ed economici importanti prodotti dalla pandemia da Covid-19 nel Paese, i gruppi haredim (ebrei ultra-ortodossi) hanno mostrato una strenua opposizione verso qualsiasi prescrizione socio-sanitaria promossa dalle autorità statali, infrangendo ogni regola basilare sul distanziamento e sui raggruppamenti in virtù di una superiorità del diritto religioso rispetto a quello dello Stato. Pur non apprezzando ciò, Netanyahu ha fatto buon viso a cattivo gioco sopportando tali scelte e necessitando ancora una volta del loro sostegno per formare una coalizione di governo.

Ultimo elemento direttamente connesso all’attuale spettro parlamentare riguarda lo spostamento dell’asse ideologico sempre più a destra. Se i voti venissero confermati, nella Knesset potrebbero sedere ben 72 rappresentanti dei partiti di destra sui 120 totali a disposizione (6 in più rispetto ai 66 della precedente tornata). Politicamente questo elemento potrebbe favorire una certa condivisione su diversi temi, al di là degli impegni di coalizione. Infatti, dal 2015, coloro che promuovevano un’agenda di destra nella Knesset si sono concentrati su sette obiettivi primari: annessione degli insediamenti in Cisgiordania; leggi per modificare la Corte Suprema; riforme di vasta portata per il mercato delle comunicazioni; combattere le campagne internazionali contro il boicottaggio di Israele per le sue politiche negli insediamenti; minare le organizzazioni di sinistra; applicazione più severa contro i richiedenti asilo; legislazione più dura contro le minoranze arabe. Tutti o in parte tali obiettivi potrebbero trovare in maniera trasversale ampio interesse in diversi partiti anche fuori dalla coalizione, come in Yesh Atid o in New Hope. Un dato, questo, che confermerebbe un trend esistente da tempo all’interno del fluido contesto politico e sociale israeliano, espressione anche di quell’idea di Stato solo per gli ebrei definito normativamente con la cosiddetta “legge sullo Stato-nazione” del 2018. In tal senso, anche la campagna elettorale ne è stata una riprova: il dibattito è stato polarizzato e concentrato soltanto sulla idoneità o meno dello stesso Netanyahu a guidare il Paese, piuttosto che su questioni più esistenziali come colmare il crescente divario tra israeliani laici e religiosi, o ideologiche come il futuro del conflitto israelo-palestinese, ormai derubricato a un “non affare interno” anche per effetto della proposta statunitense di risoluzione della questione attraverso il cosiddetto Accordo del Secolo, che ha dato la percezione in buona parte della popolazione israeliana di aver vinto la guerra e di vedersi riconosciuti i diritti sulla Cisgiordania occupata.

Eppure, lo stallo politico e il ritorno alle urne per una quinta volta potrebbe essere una realtà concreta. Forse più che in passato il ruolo degli arabo-israeliani potrebbe essere decisivo nella formazione o meno del prossimo esecutivo, raggiungendo un livello di influenza senza precedenti nella politica israeliana, più degli stessi partiti di destra che hanno garantito il potere a Netanyahu. Ad ogni modo, l’ultima parola spetterà al Presidente della Repubblica Reuven Rivlin, in scadenza di mandato a luglio 2021, il quale dovrà decidere a chi affidare il mandato esplorativo per poter cercare di formare un governo forte e stabile. Ciononostante, in questo quadro di profonda mutevolezza l’incertezza rappresenta l’unica grande certezza per il presente (più che per il futuro) di Israele.

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