Il trionfo elettorale di Aung San Suu Kyi e le sfide del nuovo governo
Asia e Pacifico

Il trionfo elettorale di Aung San Suu Kyi e le sfide del nuovo governo

Di Stefano Grandi
16.12.2020

Lo scorso 8 novembre 38 milioni di cittadini birmani si sono recati alle urne per le elezioni parlamentari generali, tramite le quali è stata delineata la composizione dell’Assemblea dell’Unione (il loro Parlamento) per i prossimi cinque anni. Come stabilito nella Costituzione elaborata dall’Esercito nel 2008, solo il 75% dei seggi dell’organo di rappresentanza verrà assegnato secondo voto popolare, mentre il restante 25% sarà eletto di default dal Comandante delle Forze Armate. Dopo uno spoglio durato quasi una settimana, fonti locali hanno riportato che per quanto riguarda la Camera bassa (Pyithu Hluttaw), 258 seggi sui 330 nominati dall’elettorato sono stati vinti dal partito di Aung San Suu Kyi, la National League for Democracy (gli altri 110 verranno occupati dai militari). Alla Camera alta (Amyotha Hluttaw) invece, sono 138 su 168 i seggi ottenuti dalla National League for Democracy (NLD), con gli ultimi 56 ancora riservati all’esercito.

L’esito finale della tornata elettorale non ha stupito, poiché ha visto il trionfo dell’NLD, il partito di maggioranza dato per favorito già ben prima dell’8 novembre. Tuttavia, è stato l’ampissimo margine di distacco rispetto al fronte dell’opposizione a costituire il dato più sorprendente. Alla luce di un presunto calo del consenso per Aung San Suu Kyi, dovuto principalmente al malcontento legato alla gestione della pandemia, le aspettative erano di un governo di coalizione a guida NLD, ma forzato ad allearsi con altri partiti minori. Invece, la National League for Democracy è stata in grado di formare un nuovo esecutivo autonomamente, riuscendo anche a ottenere più voti rispetto alle elezioni del 2015 – le prime dopo oltre trent’anni di dittatura militare, in cui già solo l’entusiasmo per la possibilità di esprimere il voto aveva portato la NLD a un ampio successo.

Tra i motivi principali di questo risultato, vi è in primo luogo la mancanza di un fronte di opposizione compatto in grado di raccogliere consensi su larga scala. Da un lato, l’USDP – il partito con più seggi in Parlamento dopo l’NLD – vanta legami molto stretti con l’esercito (Tatmadaw), che alienano il consenso di una buona porzione della popolazione ancora memore dell’esperienza della dittatura militare. Dall’altro, la presenza di numerosissime minoranze etniche nel Paese (se ne contano circa 130, ma non c’è un accordo comune a riguardo) si traduce in un’elevatissima frammentazione partitica, che rende difficile per i vari movimenti di affiliazione locale coalizzarsi per elaborare una proposta politica strutturata che controbilanci quella della National League for Democracy. Inoltre, è evidente come in Myanmar la figura di Aung San Suu Kyi goda ancora di enorme prestigio: prigioniera politica sotto il regime militare e vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1991, la figlia dell’eroe nazionale Generale Aung San è tuttora vista dalla popolazione come il volto della democrazia e della lotta alla dittatura nel Paese.

Tuttavia, a pesare sul successo del NDL ha senz’altro cotntribuito l’esclusione di circa 1,5 milioni di persone dalla partecipazione al voto. Adducendo motivazioni relative al contenimento della diffusione del coronavirus, il governo di Naypyidaw ha chiuso la maggior parte dei collegi elettorali negli Stati Rakhine, Kachin e Shan, nel nord del Paese, abitati prevalentemente da minoranze etniche storicamente contrapposte al governo centrale. Anche se quasi la totalità dei birmani Bamar (l’etnia dominante, di fede buddista, che costituisce quasi il 70% della popolazione complessiva) avrebbe poi votato Aung San Suu Kyi, con il sistema uninominale secco (first-past-the-post, o winner takes all) presente in Myanmar l’NLD avrebbe rischiato di perdere svariati seggi in Parlamento, perché in tutte le constituencies di quegli Stati sarebbero stati verosimilmente eletti candidati di partiti minoritari locali.

Il rapporto con le minoranze etniche rappresenta il principale punto in agenda per il governo birmano, in termni di stabilità e di sostenibilità interna. La manifestazione più evidente di questo dossier è il rapporto tra governo e la  minoranza dei Rohingya. Il popolo dei Rohingya, di fede musulmana, non viene riconosciuto ufficialmente da Naypyidaw tra le oltre 130 minoranze del Paese, e non gode del diritto né di cittadinanza né (è una delle maggiori comunità apolidi del mondo) né di voto. Già impossibilitati a recarsi alle urne nel 2015,  i memebri della comunità Rohingya sono stati i princiapli esclusi anche dell’ultima tornata elettorale, sia come votanti (si stima che circa 1,2 su 1,5 milioni delle persone cui è stato negato il voto appartenga a questa etnia), sia come possibili canadidati nei collegi elettorali dello Stato.

I contrasti tra Rohingya e governo birmano risalgono all’epoca del colonialismo, quando il Regno Unito si insediò nell’area unendo due territori precedentemente separati (1824), ovvero l’Arakan (odierno Rakhine) e la Birmania (oggi Myanmar). Con l’indipendenza di quest’ultima dalla Corona britannica sono iniziate i conflitti sub-nazionali tra la maggioranza buddista Bamar e la minoranza Rohingya, che nel frattempo creò un proprio esercito paramilitare per perorare la causa secessionista.

L’apice della persecuzione nei confronti di tale popolazione si raggiunse nel 2017, durante la prima legislatura dell’NLD di Aung San Suu Kyi, quando il Tatmadaw, accompagnato anche da gruppi di civili di religione buddista, perpetrò una dura repressione nei confronti dei Rohingya, che comportò la fuga di circa 700.000 persone dal Myanmar al Bangladesh – principalmente verso il campo profughi di Kutupalong, che ne raccoglie tuttora 600.000, tanto da essere classificata dalle Nazioni Unite come pulizia etnica.

Senza dubbio il forte potere politico garantito ai militari dalla Costituzione del 2008, ancora in vigore, ha ridotto il margine di manovra dell’esecutivo nella gestione del raporto con le minoranza, considerata ancora oggi una delle principali questioni di sicurezza. Inoltre, la gestione del rapporto con i Rohingya si inserisce all’interno anche di un coplesso calco di equilibri interni, che ha portato l’esecutivo a ponderare con cautela eventuali mosse politiche verso la minoranza. A livello domestico, infatti, il rapporto tra inter-etnico tra magigoranza bhuddista e minoranza musulmana è decisamente controverso. Accusata di voler creae uno Stato indipendente di fede islamica nel territorio del Rakhine, la comunità Roingya viene anche assimilata alle violenze generate dallo scontro tra le autorità centrali e il movimento di insorgenza, di cui l’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) è il gruppo principale, int4ensificatosi a partire dalla repressione del 2017.

La questione dei Rohingya esemplifica la difficoltà del governo di perseguire un percorso di pacificazione sociale e riconciliazione interetnica. Tale obiettivo era un cardine del programma elettorale di Aung San Suu Kyi nel 2015, anche se le condizioni di ostilità sono rimaste inalterate da allora. Pertanto, negli anni a venire potrebbe essere proprio questa la più grande sfida per l’NLD. Le principali minacce derivano dai vasti poteri che l’esercito tuttora mantiene, ma soprattutto dall’escalation di violenze tra quest’ultimo e le milizie secessioniste presenti in tutto il Paese, tra cui figura anche l’ARSA.

L’Arakan Army infatti appartiene a una coalizione antigovernativa ben più grande nota come Northern Alliance, che raccoglie una serie di gruppi paramilitari minori, spesso rappresentativi di varie minoranze etniche diffuse in tutto il Myanmar. Tra questi, il Kachin Independence Army (KIA), attivo nel Kachin, lo Stato più a nord del Paese, il Kokang Army, operativo nel nord-est, nello Stato Shan, e il Ta’ang National Liberation Army (TNLA), originario sempre dello Stato Shan, ma affiliato a un’altra etnia (i Palaung). Qualora Aung San Suu Kyi non riuscisse a favorire un dialogo distensivo, la Northern Alliance potrebbe continuare a portare avanti la propria attivtà di insorgenza, di fatto alimentando una spirale di violenza interna che, a sua volta, complica inevitabilmente il rapporto tra le minoranze e il resto della popolazione e alimenta la polarizzazione all’interno della società.

La ricomposizione della frattura tra gruppi etnici differenti resta quindi il passaggio obbligato per garantire la stabilità del Myanmar. Per il nuovo governo, dunque, la sfida principale sarà cercare di trovare un equilibrio tra il delicato processo di cesellamento delle prerogative ancora riconosciute al Tatmadaw e l’individuazione di priorità comuni con le minoranze, al fine di  incentivare una ripresa in chiave pragmatica del dialogo e della definizione di un perimetro entro il quale poter concordare un percorso che abbia come destinazione finale la stabilizzazione del contesto interno.

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