Il fronte jihadista in Africa Occidentale
Africa

Il fronte jihadista in Africa Occidentale

Di Marco Di Liddo
11.05.2016

Inizialmente radicata nelle roccaforti del Maghreb (Algeria, Tunisia ed Egitto), del Corno d’Africa (Somalia), e dell’Africa Centrale (Sudan), la rete jihadista, a partire dai primi anni duemila, ha cominciato a diffondersi in Africa Occidentale. La prima “missione diplomatica” del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) algerino presso le tribù tuareg del Sahel è avvenuta nel 2003, quando l’ideologo Abdul Razzaq el-Para ed un allora semi-sconosciuto Mokhtar Belmokhtar hanno cominciato ad esplorare la regione a sud dell’Algeria alla ricerca di quelle alleanze tribali necessarie al rilancio del movimento, in quel momento fiaccato dall’azione delle forze di sicurezza algerine. Dunque, ben prima della nascita ufficiale di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), formalmente avvenuta nel 2007, Belmokhtar ed el-Para avevano intuito le opportunità offerte dal panorama tribale saheliano e dell’Africa subsahariana. In particolare, Belmokhtar, nativo della città arabo-berbera algerina di Gherdaia ed abituato ad operare in un contesto sociale multi-culturale dominato dalle logiche clanico-familistiche, aveva compreso il potenziale di radicalizzazione e reclutamento del popolo Tuareg e del popolo Fulani (in lingua Hausa, o Peul in lingua Wolof). Infatti, entrambi i gruppi etnici condividono diversi elementi: la natura semi-nomadica, che agevola la conoscenza e il controllo di territori remoti dove il potere dell’autorità statale è flebile o assente; la diffusione in tutta la regione dell’Africa centro-settentrionale; l’emarginazione sociale e la subalternità politica a cui sono sottoposti in quasi tutti i Paesi dell’area.

Dunque, grazie ai vincoli tribali dei Tuareg, soprattutto del clan maliano Ifoghas, originario del Massiccio dell’Adrar des Ifoghas, e del clan libico Ghat, originario dell’omonima oasi sita sul Massiccio di Murzuq, e dei Fulani, il GSPC prima ed AQMI poi hanno lentamente propagato l’ideologia jihadista ed allargato il proprio network dal sud della Libia fino al nord della Nigeria. Il nomadismo dei Fulani e dei Tuareg ha agito da vero e proprio vettore per l’ideologia jihadista ed è stato fondamentale per infettare anche quelle comunità stanziali che avevano congelato il proprio processo di radicalizzazione (Kanuri in Nigeria nord-orientale) o che addirittura associavano le proprie rivendicazioni e la propria insorgenza a ideologie laiche o socialisteggianti (Saharawi).

A partire dal 2003, e per i successivi 8-10 anni, il processo di radicalizzazione in Africa Occidentale è stato incubato lentamente, gestito prima dall’Emirato del Sahara, il dipartimento di AQMI responsabile delle operazioni nelle regioni desertiche, e successivamente dalle metastasi di Al Qaeda, in primis il Movimento per l’Unicità di Dio e il Jihad in Africa Occidentale (MUJAO) e il Battaglione di Coloro che Firmano con il Sangue (o Battaglione dei Mascherati). Gli ultimi 2 gruppi, oggi riuniti sotto l’effige di al-Mourabitoun (le Sentinelle) e guidati dalla diarchia formata da Belmokhtar e da Adnane Abou Walid al-Sahraoui (miliziano di origine saharawi), rappresentano chiaramente l’autonomia raggiunta dalle reti jihadiste saheliane e dell’Africa Sub-sahariana. Infatti, oltre ad essere composto in assoluta maggioranza da miliziani non algerini e non nord-africani, al-Mourabitoun, pur dichiarando la sua affiliazione al network qaedista, rivendica piena autonomia operativa, ideologica e finanziaria. Inoltre, anche se AQMI continua ad essere un marchio dal maggiore richiamo propagandistico, al-Mourabitoun probabilmente risulta essere più influente e radicato nell’area saheliana ed africana occidentale, nonché più ricco in quanto, controllando le principali rotte carovaniere desertiche, compartecipa attivamente sia al traffico di armi, droga ed esseri umani, sia al business dei rapimenti.

Se la guerra civile maliana e l’evidente risvolto jihadista impresso all’insurrezione Tuareg del 2011-2013 avevano costituito il battesimo di fuoco per i network terroristici in Africa saheliana, la catena di attentati susseguitisi in Africa Occidentale tra il marzo 2015 e il marzo 2016 ha rappresentato la prova sia dell’avvenuta maturazione del disegno eversivo salafita, sia delle prospettive di diffusione in Paesi sinora ritenuti impermeabili a questo tipo di minaccia. Infatti, diversi sono gli elementi che collegano gli attacchi di Bamako (Mali, 7 marzo e 20 novembre 2015), di Ouagadougou (Burkina Faso, 15 gennaio 2016) e Grand Bassam (Costa d’Avorio, 13 marzo 2016). Innanzitutto, gli obiettivi (luoghi turistici o frequentati da cittadini occidentali o da membri dell’élite politico-economica dei rispettivi Paesi) sottolineano sia la natura profondamente anti-occidentale delle azioni in questione, sia la volontà di colpire le classi abbienti degli Stati presi di mira, spesso espressione dell’etnia dominante. In secondo luogo, la provenienza degli attentatori e la struttura della cellula responsabile. In tutti i casi si è registrata la presenza, accanto ai maghrebini, di miliziani appartenenti ad etnie subalterne locali, come Fulani e Tuareg a Bamako e presumibilmente a Ouagadougou, Fulani e probabilmente Senoufo e Mandè del Nord in Costa d’Avorio. Elemento, quest’ultimo, deducibile dall’analisi delle fotografie di Kounta Dallah, presunto Comandante della brigata ivoriana di al-Mourabitoun e responsabile, assieme al maliano Souleiman Keita, degli attacchi di Grand Bassam. Infine, tutti gli attentati sono stati rivendicati congiuntamente da AQMI e da al-Mourabitoun, elemento che sottolinea la cooperazione tra i 2 movimenti.

Tale sinergia è funzionale ad ottimizzare il ritorno propagandistico, poiché è verosimile credere che la logistica dell’attacco sia stata opera del gruppo di Belmokhtar ma che, grazie al marchio qaedista, sia stato possibile amplificarne l’eco mediatica. Inoltre, è lecito pensare che queste azioni combinate abbiano lo scopo di difendere l’appeal del network qaedista in Africa dalla crescita dello Stato Islamico e, nelle stesso tempo, rilanciarlo a livello globale. In questo senso, l’Africa è diventata un teatro dove Al Qaeda, continuando ad essere più radicata e forte di Daesh, tenta di ovviare all’erosione di sostegno, immagine ed influenza patita in Medio Oriente ed Europa per colpa del movimento di Baghdadi. Inoltre, molto interessante risulta il fatto che, oltre ad AQMI ed al-Mourabitoun, a rivendicare gli attacchi siano stati gruppi minori affiliati, come Ansar al-Din (redivivo movimento tuareg), e il Fronte di Liberazione di Mecina (FLM), organizzazione formata da Fulani presenti nell’area della città maliana di Mopti.

La continua apparizione di queste sigle minori evidenzia ulteriormente la complessità e la varietà del mosaico insurrezionale salafita della regione. Il terrorismo a geometria etnica variabile costruito da Al Qaeda in Africa Saheliana ed Occidentale potrebbe essere una concreta minaccia alla stabilità regionale e agli interessi occidentali ancora a lungo, soprattutto perché in grado di mobilitare, potenzialmente, un elevato numero di combattenti attorno allo zoccolo duro di AQMI e di Al Mourabitoun, quantificabile complessivamente in circa 3.500 unità. Inoltre, la persistenza di conflitti etnici su base settaria e la capacità del network qaedista di soddisfare i bisogni politici e materiali, grazie ad una consistente rete assistenziale informale, potrebbero agevolare la radicalizzazione di tribù e conglomerati clanici anche in quei Paesi, come il Senegal, sino ad oggi risparmiati dalla morsa del jihadismo. Tutto questo senza dimenticare che, qualora fosse avviata una missione di stabilizzazione in Libia con la presenza di soldati occidentali, migliaia di miliziani provenienti dal Sahel e dall’Africa sub-sahariana sarebbero inevitabilmente spinti a combattere la jihad in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, rendendo la situazione in Libia ancor più pericolosa ed inestricabile.

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