Geopolitica del Kurdistan iracheno: dinamiche interne e interessi regionali
Medio Oriente e Nord Africa

Geopolitica del Kurdistan iracheno: dinamiche interne e interessi regionali

Di Giuseppe Palazzo
01.03.2021

Dalla primavera del 2020, il Kurdistan iracheno si è trovato al centro di interessi molteplici da parte dei principali attori regionali. Tra tutti, la Turchia è quella che ha mostrato un grado di coinvolgimento e dinamismo maggiore negli affari curdo-iracheni, tanto da lanciare una serie di incursioni militari nelle zone comuni di confine. Nell’ultima operazione, lanciata il 10 febbraio scorso, le Forze Armate di Ankara sono tornate in patria con i corpi di tredici loro soldati rapiti alcuni anni prima, presumibilmente, da fazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) presenti in quell’angolo di Iraq. Tale avvenimento ha scosso in profondità il Paese dell’Asia Minore, tanto da portare le autorità turche a scagliarsi contro il PKK e a promettere di tornare in forze nell’area per imporre l’influenza di Ankara, a scapito dei curdo-turchi e delle altre potenze regionali e internazionali. Quest’intreccio d’interessi, eccezionalmente convergente a svantaggio dei curdo-turchi del PKK, è il dato di studio principale per comprendere le prospettive del Kurdistan iracheno e le numerose interferenze esterne.

Infatti, la caratteristica saliente della politica curda è la frammentazione d’interessi in un lembo di terra strategico che per la sua esposizione ad agenti esterni necessiterebbe, come principio strategico di base, la massima unità delle sue parti. Invece i curdi, tradizionalmente dispersi e destinati ad appartenere a diverse entità statuali, da decenni si combattono internamente, trovando in alcuni casi una sponda presso i principali attori coinvolti (Turchia, Iran, Stati Uniti, Iraq). Il caso più eccezionale è quello del Kurdistan iracheno, collocato nel nord dell’Iraq e un de-facto state all’interno della statualità irachena. Dal 2008, il Governo Regionale del Kurdistan (KRG) governa l’omonima regione in maniera quasi del tutto autonoma rispetto alle politiche centrali di Baghdad. La presenza a maggioranza curda in Iraq non si limita alla regione autonoma, ma penetra a sud delle montagne del governatorato di Dahuk, oltrepassando il Tigri, fino al governatorato di Ninive e nel distretto di Sinjar. Proprio quest’ultima è un’area contestata a causa della forte presenza del PKK, nonché tratto pericolosamente esposto alle rappresaglie dei turchi, dei persiani, degli iracheni e delle altre fazioni curde.

Le maggiori formazioni politiche del Kurdistan iracheno sono il Partito Democratico Curdo (KDP), guidato dalla famiglia Barzani, l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), facente capo alla famiglia Talabani, e la presenza minore del Movimento Gorran, in declino dopo le elezioni del 2018. La storica rivalità tra KDP e PUK ha incentivato le potenze regionali a proporsi come sponda per aumentare il peso negoziale dei curdi nel braccio di ferro interno. Radicato nel governatorato di Dahuk e di Erbil, dai primi anni Novanta il KDP ha sviluppato una convergenza d’interessi con la Turchia, utile a garantirgli l’appoggio di un potente attore regionale per rafforzare il suo dominio interno sul territorio. D’altra parte, la stessa Turchia gode di un certo vantaggio strategico dalla possibilità d’inserirsi nelle vicende curdo-irachene: da un lato si mantiene alta la conflittualità interna alle singole fazioni, dall’altro si impedisce un qualsiasi avvicinamento tra curdo-iracheni, curdo-siriani e curdo-turchi, i quali, se alleati, potrebbero costituire una massa critica estremamente pericolosa per l’integrità territoriale turca e regionale. Inoltre, e più tacitamente, la collaborazione tra turchi e curdo-iracheni serve a bilanciare la pervasiva influenza iraniana in Iraq che opera sia tramite le milizie sciite sul campo sia attraverso le fazioni che siedono in Parlamento, le quali, con intensità variabile, hanno quasi tutte costruito una relazione speciale con l’Iran a partire dagli anni Ottanta.

L’altro grande partito, il PUK, è radicato nel governatorato sud-orientale di Sulaymaniyah. Nato da una scissione dopo la sconfitta del KDP nella guerriglia contro Saddam Hussein all’inizio degli anni Settanta, il PUK ha avuto relazioni meno lineari con gli attori regionali. Una partnership storica è stata sviluppata con la Repubblica Islamica, ma l’ingombrante presenza delle milizie sciite e gli scontri del 2016 tra queste ultime e i Peshmerga, ovvero i combattenti curdo-iracheni, hanno gradualmente raffreddato i rapporti con l’Iran. A differenza del KDP, il PUK si è mostrato più tollerante verso l’attività del PKK in Iraq, ma l’allontanamento dall’Iran ha portato la dirigenza del PUK ad avvicinarsi ad un altro attore statale, la Turchia.

La convergenza tra KDP e PUK verso posizioni filo-turche ha posto in una situazione estremamente svantaggiosa i curdo-turchi del PKK, i quali hanno una forte presenza nel distretto di Sinjar al confine con la Siria e tra le montagne di Qandil, nei pressi della triplice frontiera con Turchia e Iran. L’altra ragione dietro la crescente ostilità curdo-irachena verso il PKK è rappresentata dalla fine della minaccia dello Stato Islamico (ISIS). Nell’agosto 2014, durante l’avanzata dell’ISIS verso la piana di Ninive, si verificò una presenza del PKK in Iraq causata anche dall’abbandono delle posizioni dei Peshmerga del KRG, i quali lasciarono, tra le altre cose, anche le popolazioni locali (in particolare la comunità yazida e cristiana) alla mercé delle violenze dei miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi. In quelle settimane si verificarono infatti diversi atti di rappresaglia da parte dei combattenti dello Stato Islamico contro le diverse minoranze presenti nell’area. In quelle fasi, il PKK organizzò un corridoio di sicurezza e una linea di difesa nei pressi dei monti dello Sinjar. Contemporaneamente dispose un reclutamento di uomini per la costituzione e il rafforzamento di milizie composte da yazidi, come la filo-PKK “Unità di Resistenza dello Sinjar”, che passarono all’offensiva nel dicembre 2014. In questo contesto, la minore minaccia esterna rappresentata dall’ISIS ha indotto i curdo-iracheni a ritenere la presenza del PKK nel loro territorio non più strumentale ai propri interessi politici.

Venuta meno, quindi, una minaccia esterna funzionale al gioco dei curdo-iracheni, il PKK è risultato essere un attore di disturbo che ha portato, invece, instabilità e violenza nei loro territori, spesso a danno delle popolazioni locali, nonché risultando un elemento di attrazione per le rappresaglie turche. Anche in quest’ottica, il 9 ottobre 2020, le autorità di Baghdad e di Erbil hanno firmato il “Sinjar Agreememt”, che mira a riportare sotto l’autorità centrale il distretto di Sinjar, che è de facto controllato dal PKK e dalle milizie yazide vicine non solo ai curdo-siriani e curdo-turchi, ma anche ai gruppi appartenenti al Fronte di Mobilitazione Popolare (PMU), ombrello identificativo di varie milizie filo-iraniane.

Il processo di convergenza curdo-iracheno e turco e l’accordo firmato tra Erbil e Baghdad hanno surriscaldato la situazione sul terreno e i rapporti con il PKK. A metà ottobre 2020, le forze speciali curde sotto il comando di Masrour Barzani, Primo Ministro del KRG, sono state schierate nei monti di Gara, a nord di Dahuk, fortino curdo-siriano dalla sconfitta dell’ISIS. Bloccando ogni potenziale via di fuga tramite dieci checkpoints, Barzani è stato accusato di isolare l’area e facilitare il compito turco di dare la caccia ai militanti del PKK in quelle zone montuose. Il KRG si è difeso sostenendo che il dispiegamento militare servisse a difendere i civili e a sorvegliare l’area affinché l’attività militare turca non si espandesse ancora più a sud. Non a caso, poche settimane più tardi, il confronto a distanza tra KRG e PKK è degenerato in schermaglie, attacchi ad infrastrutture, reciproche accuse di assassinii e scontri armati che hanno lasciato vittime da entrambe le parti.

Forte di trentasette basi militari nel Kurdistan iracheno, Ankara ha bersagliato tramite attacchi aerei e rapide incursioni le postazioni del PKK nel Sinjar e tra le montagne di Qandil. A metà giugno 2020 è stata lanciata l’offensiva militare – soprattutto aerea – più imponente dal 2015 nota come “Operazione Claw Eagle”, a cui si è aggiunta, dal 10 al 14 febbraio, la seconda parte della medesima operazione (questa volta anche in chiave terrestre), mirata a eliminare tutti gli elementi del PKK già isolati dal KRG nella zona di Gara. Nel corso dell’ultima operazione, le Forze Armate turche hanno trovato i corpi esanimi di tredici loro connazionali, soldati rapiti da milizie del PKK presumibilmente tra il 2015 e il 2016.

L’aumento dell’attività turche in Iraq e la preoccupazione del KDP per la presenza curdo-siriana sono dovute a tre fattori che hanno generato e continuano ad alimentare un certo circolo vizioso: 1) il PKK produce un’espansione militare turca nel Kurdistan iracheno; 2) a causa della crescente pressione turca, il PKK si addentra nei territori iracheni ramificando la sua presenza; 3) per stabilizzare la sicurezza e il suo controllo del territorio, l’organizzazione usa mezzi coercitivi verso le popolazioni locali ed espande le proprie attività militari, generando a sua volta la reazione delle autorità curdo-irachene e della Turchia.

La posizione di Baghdad riguardo alle incursioni turche, alle infiltrazioni curdo-siriane e ai timori del KRG si attesta su una linea defilata, anche a causa dell’incapacità del governo di Baghdad d’imporre il monopolio legittimo della forza in tutti i suoi territori. Il Primo Ministro iracheno, Mustafa al-Kadhimi, è già alle prese con il difficile tentativo di ristabilire l’autorità governativa nelle aree meridionali in un braccio di ferro con le milizie sciite appoggiate da Teheran. Pur dando priorità all’espansione della potestà pubblica nella capitale e nel sud (in particolare nelle zone di confine e in quelle portuali), l’agenda di al-Kadhimi, volta nel lungo termine a ristabilire l’autorità de facto del governo centrale anche a nord, mira ad allargare lo spazio di manovra di Baghdad incuneandosi nella contesa del Kurdistan iracheno. Infatti, il già menzionato “Sinjar Agreement” prevede il dispiegamento di 2000 militari del governo federale nell’omonimo distretto al fine di bilanciare la presenza del PKK e, indirettamente, l’influenza che le PMU esercitano sulle milizie yazide. In ogni caso, pur ufficialmente condannando le incursioni turche, l’Iraq in parte beneficia del fatto che la Turchia si sobbarchi i costi maggiori per eliminare la presenza del PKK dall’area.

Se gli interessi turchi nel Kurdistan iracheno sono percepiti come vitali per la sicurezza dei propri confini, di converso, per l’Iran questi territori sono strategici per svariate altre ragioni: storicamente, Teheran ha utilizzato la guerriglia curda per indebolire lo Stato centrale iracheno, in particolare all’inizio degli anni Settanta e nelle prime fasi della guerra Iran-Iraq (1980-1988). Dopo il conflitto, l’influenza iraniana si è attenuata, ma ha mantenuto un appiglio importante tramite i contatti con il PUK, le milizie sciite, i gruppi armati yazidi e il PKK, soprattutto, dal post-riconquista di Sinjar del dicembre 2014. Il distretto orientale del governatorato di Ninive è dunque diventato un cruciale punto di passaggio tra Iraq e Siria non solo per i curdo-siriani, ma anche per i proxies filo-iraniani che fanno uso della continuità territoriale per trasferire truppe e risorse in Siria. Tuttavia, la Turchia necessita della cooperazione iraniana in funzione anti-curda per isolare geograficamente i monti di Qandil. L’Iran non ha fatto opposizione all’attivismo turco in Iraq, tanto che nel marzo 2019 ha partecipato ad un’operazione congiunta contro il PKK e nel giugno 2020 ha dato luce verde alla penetrazione militare turca. Indebolita dalla “massima pressione” imbastita da Washington, l’Iran non può permettersi di allungare la lista dei nemici; specialmente se il prezzo da pagare, ovvero la credibilità di fronte ai curdo-siriani e ai curdo-turchi, è relativamente esiguo. Tuttavia, è nell’interesse iraniano evitare che la Turchia dilaghi nel nord iracheno e consolidi una sua zona d’influenza esclusiva. Infatti, una milizia sciita pro-iraniana nota come Ashab al-Kahf ha lanciato dei razzi verso la base di Bashiqa e Asaib Ahl al-Haq ha minacciato di fare altrettanto. Teheran continua a perseguire i suoi autonomi interessi nella regione oscillando tra il tentativo d’impedire l’emergere di un’egemonia esterna nel Kurdistan iracheno e la necessità di non far surriscaldare la situazione a causa del già eccessivo overstretching regionale.

In conclusione, l’aumento dell’attivismo turco, in particolare a sud-est dei suoi confini, sarà un tema sempre più centrale nelle questioni mediorientali. Mentre l’asse israelo-sunnita si compatta in funzione anti-persiana e la posizione iraniana si è indebolita negli ultimi anni a causa del bilanciamento russo-turco in Siria e dei progressi di Baghdad contro le milizie sciite, la Turchia si sta gradualmente ergendo come il più credibile candidato a ricoprire il ruolo di “potenza indispensabile” in Medio Oriente, essendo sempre più intenzionata a mettere in discussione lo status quo regionale. Una riconsiderazione di ruoli e status che hanno radici profonde nella coscienza della nazione del Misak-ı Millî, il Patto Nazionale del febbraio 1920, nelle cui decisioni i confini turchi sono allargati al nord della Siria e al Kurdistan iracheno (ed oltre). Dunque, è ragionevole pensare che il protagonismo turco in Iraq e l’ampliamento delle sue operazioni sono destinati ad aumentare al fine di consolidarne la presa a scapito delle formazioni curde nell’area.

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