Dentro l’accordo quadro sul commercio tra Stati Uniti ed Unione Europea
Il 27 luglio, dopo mesi di intense trattative, è stato raggiunto un accordo commerciale tra il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Sebbene i risultati ottenuti dall’Unione Europea rappresentino un progresso rispetto alla situazione del 2 aprile, quando, in occasione del “Liberation Day”, Trump aveva annunciato pesanti dazi verso la quasi totalità dei partner commerciali degli Stati Uniti, la recente tregua tra le due sponde dell’Atlantico evidenzia ancora una volta la necessità, per Bruxelles, di preservare il rapporto con il suo principale mercato di sbocco.
In merito a ciò, l’accordo commerciale raggiunto tra Stati Uniti e Unione Europea prevede l’imposizione di una tariffa d’importazione uniforme del 15% sulla quasi totalità delle merci europee destinate al mercato statunitense. La misura evita per il momento la minaccia immediata di un’escalation tariffaria fino al 30% e pone temporaneamente fine al rischio di una guerra commerciale transatlantica. Tuttavia, l’aliquota concordata risulta essere comunque significativamente più alta rispetto ai livelli medi precedenti, che si aggiravano intorno al 4,8%, e comporta un consolidamento strutturale di barriere tariffarie penalizzanti per l’export europeo. Nondimeno, rimane importante segnalare come non si tratti di un’aggiunta ai dazi già in vigore, ma di una revisione generalizzata che annulla regimi preferenziali e li sostituisce con un’imposizione standardizzata, colpendo in particolare settori a elevato valore strategico come automotive, semiconduttori, farmaceutico e beni industriali ad alta tecnologia.
A tal proposito, il settore automobilistico non continuerà a subire una pressione tariffaria significativa, con il mantenimento del dazio del 27,5% su veicoli e componentistica, confermato come misura permanente. Resta inoltre in vigore l’aliquota del 50% sull’acciaio e sull’alluminio europeo, benché l’accordo preveda, in linea teorica, una futura conversione in un sistema di quote ancora privo di tempistiche e meccanismi chiari.
Per quanto riguarda semiconduttori e prodotti farmaceutici, la loro inclusione nella nuova aliquota del 15% è stata oggetto di ambiguità comunicativa, ma sembrerebbe che saranno soggetti al nuovo regime, almeno fino alla conclusione delle indagini previste dalla Sezione 232 del Trade Expansion Act, attese entro la metà di agosto. Questa incertezza normativa lascia esposti i comparti tecnologici e medicali dell’industria europea alle oscillazioni politiche statunitensi e rafforza la vulnerabilità strutturale del manifatturiero UE.
Alcune esclusioni sono state inserite nell’accordo, ma si tratta di deroghe parziali e tecniche più che di vere aperture strutturali. Infatti, non dovrebbero essere soggetti a dazi gli aeromobili e i loro componenti, alcune sostanze chimiche selezionate, specifici farmaci generici, alcune attrezzature per la produzione di semiconduttori, risorse naturali e materie prime critiche. Tuttavia, queste eccezioni si applicano a volumi limitati e a una lista ristretta di codici doganali, risultando marginali rispetto all’impatto complessivo della nuova struttura tariffaria. Non vi sono inoltre garanzie di stabilità nel lungo periodo, dal momento che la Casa Bianca si è riservata la possibilità di modificare le aliquote unilateralmente in caso di inadempienze da parte dell’UE rispetto agli impegni assunti.
Tra questi figurano obblighi rilevanti sul piano macroeconomico. Bruxelles si è impegnata ad acquistare, nel corso del secondo mandato presidenziale di Trump, beni strategici statunitensi per un valore complessivo di 750 miliardi di dollari. Le categorie coperte includono petrolio, gas naturale, in particolare gas naturale liquefatto (LNG), combustibili nucleari, semiconduttori e microchip avanzati. Parallelamente, Bruxelles ha accettato di promuovere investimenti europei diretti negli Stati Uniti fino a 600 miliardi di dollari. In termini economici, ciò rappresenta una riallocazione forzata di capitale industriale che, nel medio termine, potrebbe favorire la reindustrializzazione americana a scapito della capacità produttiva europea, già in contrazione in diversi comparti ad alta intensità tecnologica. L’accordo si configura quindi come una tregua commerciale temporanea, più che una normalizzazione dei rapporti. Sebbene venga presentato come strumento di stabilizzazione, rafforza in realtà uno squilibrio sistemico crescente, segnando una vittoria per la strategia negoziale statunitense fondata su minacce tariffarie.
Sul fronte della difesa, invece, è rilevante segnalare come l’accordo quadro relativo al commercio tra Stati Uniti ed UE coinvolga naturalmente anche il comparto aerospazio e difesa. In primis, tutto il segmento afferente alla compravendita di aeromobili e della relativa componentistica rientra apparentemente nella clausola zero-for-zero tariffs, la quale esclude tali misure, insieme a talune altre categorie di prodotti, da dazi sia nel mercato statunitense, sia in quello dell’UE. Più significativamente, tuttavia, i termini dell’accordo prevedrebbero, nelle parole del Presidente Trump, “centinaia di miliardi di dollari” in acquisizioni europee di equipaggiamento militare statunitense. Al netto dell’indeterminatezza del valore economico sotteso, l’individuazione di un tetto minimo di acquisti di mezzi, materiali e sistemi d’arma da Washington appare coerente con la spinta dell’Amministrazione Trump ad un rafforzamento della deterrenza e difesa dei Paesi UE e del loro contributo, anche finanziario, entro il perimetro della NATO, attraverso l’acquisto off-the-shelf di prodotti statunitensi, a discapito di un investimento a più lungo termine nel rinvigorimento della base tecnologica ed industriale europea della difesa. Appare tuttavia ancora dubbio se questa clausola ricomprenderà anche l’assistenza militare destinata all’Ucraina, la quale sarebbe fornita dagli Stati Uniti, ma pagata dai Paesi dell’UE secondo le recenti dichiarazioni dell’Amministrazione Trump. In tal senso, non si può nemmeno escludere che parte dei 600 miliardi di dollari di investimenti di compagnie dell’UE negli Stati Uniti entro il 2028, sempre previsti dall’accordo, includano anche la base industriale della difesa, con numerose aziende europee già molto attive nel mercato statunitense.
In questo quadro, l’UE ha accettato condizioni chiaramente sfavorevoli, pur di evitare la chiusura del mercato americano, il più importante sbocco extracomunitario per l’export industriale europeo. Le pressioni interne, soprattutto da parte di Germania e Italia, esportatori netti con surplus consistenti verso gli USA, hanno reso politicamente insostenibile uno scontro commerciale diretto. Il compromesso raggiunto riflette una capacità negoziale debole da parte di Bruxelles, che si è trovata a trattare da una posizione subordinata, scarna di un’alternativa strategica immediatamente praticabile. Le dichiarazioni post-incontro parlano di “stabilità” e “prevedibilità”, ma i margini di autonomia dell’Unione in materia commerciale appaiono ridotti. I dazi non vengono più impiegati come meri strumenti fiscali, ma come leve di pressione, in un contesto sempre più competitivo e instabile. Le modalità con cui si è giunti all’accordo, tra dichiarazioni contrastanti, tensioni diplomatiche e una comunicazione incerta su punti chiave come i farmaci e l’acciaio, confermano che la relazione transatlantica è entrata in una fase di gestione tattica più che di cooperazione strutturata.