Le criticità del Pakistan nell’ambito della Belt and Road Initiative
Asia e Pacifico

Le criticità del Pakistan nell’ambito della Belt and Road Initiative

Di Luca Tarantino
22.01.2019

Ad inizio novembre 2018 il Primo Ministro del Pakistan Imran Khan ha effettuato il suo primo viaggio ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) da quando ha assunto tale incarico il 18 agosto 2018.  La visita è stata l’occasione per incontrare il Presidente cinese Xi Jinping e per dare una continuità alla relazione tra i due Paesi a pochi mesi dall’insediamento del nuovo governo. Accompagnato da diversi membri di spicco dell’esecutivo, tra cui il Ministro degli Esteri Shah Mehmood Qureshi, quello della Finanza Asad Umar e il Consigliere al commercio Abdul Razzak Dawood, infatti, il leader pakistano è giunto a Pechino con una duplice agenda: cercare una conferma della stabilità della sponda politica ed economica su cui poter fare affidamento; trovare una convergenza per il futuro sviluppo del China Pakistan Economic Corridor (CPEC), uno dei più importanti corridoi della Belt and Road Initiative (BRI).

Nel primo caso parliamo del tentativo di Khan di far fronte ai forti squilibri nella bilancia dei pagamenti del Pakistan degli ultimi mesi. Tali squilibri hanno generato una crisi finanziaria e rischiano di far finire il Paese in default. Islamabad deve infatti fronteggiare il crollo della sua moneta, la rupia pakistana, e aumentare le riserve valutarie della Banca di Stato, che nel solo 2018 si sono drasticamente ridotte a 7,2 miliardi di dollari, una cifra in grado di sostenere le importazioni pakistane per soli altri 2 mesi.

L’obiettivo era procrastinare quello che alla fine sarà il tredicesimo prestito del Fondo Monetario Internazionale dalla fine degli anni ‘80. L’aiuto da parte di quest’ultimo, il quale avrà un valore di 6 o 7 miliardi di dollari e dovrebbe essere perfezionato a gennaio 2019, verrà infatti probabilmente condizionato a stringenti parametri di rigore fiscale che potrebbero facilmente rallentare la fase di crescita economica della Repubblica Islamica, il cui PIL è cresciuto nel solo 2017 del 5,7%.

La cautela con cui il governo si è mosso nei confronti del FMI è motivata anche dalla consapevolezza che l’intervento dell’organizzazione potrebbe mettere in discussione il rapporto finanziario intrattenuto proprio con Pechino. Se, da un lato, gli investimenti cinesi hanno rappresentato una preziosa ancora di salvezza per il governo, dall’altro, hanno contribuito ad accrescere l’indebitamento del Paese nei confronti della RPC. L’apparente insolvibilità del debito sta creando non poche difficoltà proprio con il FMI, che sembrerebbe intenzionato a vincolare ogni aiuto al Paese ad un’interruzione del flusso di investimenti cinesi, per scongiurare che un eventuale prestito possa essere utilizzato per ripagare il debito contratto da Islamabad con fondi e banche cinesi.

Per quanto riguarda il secondo punto della trattativa, Khan ha cercato di ottenere da Pechino una revisione dei progetti di investimento cinesi nel Pakistan funzionale alla riduzione dell’eccessiva onerosità del CPEC stesso. Il corridoio è stato presentato nel 2013 e prevede il finanziamento e la costruzione di strade, porti, centrali elettriche e distretti industriali lungo una direttrice che partendo dal porto di Gwadar sul Mar Arabico attraversi tutto il Pakistan fino a giungere a Kashgar, nella Regione autonoma dello Xinjiang, nell’Ovest della Cina. Una volta completato, il CPEC avrà un valore strategico per la RPC, in quanto permetterà al petrolio che questa importa dal Golfo Persico di evitare il transito per lo Stretto di Malacca, lo stretto nel Sud-Est asiatico pattugliato da navi straniere, giungendo direttamente dal Mar Arabico allo Xinjiang e garantendo la sicurezza energetica del Paese asiatico.

I problemi per il Pakistan risiedono nel costo dell’iniziativa, che è passato da una cifra iniziale stimata di 46 miliardi di dollari agli attuali 62, mettendo Islamabad di fronte a un bivio tra la continuazione della cooperazione nelle modalità prestabilite e un pesante indebitamento nei confronti della Cina. Sin dall’inizio del suo mandato, il Primo Ministro ha avuto così un approccio al riguardo piuttosto divergente rispetto a quello del predecessore Nawas Sharif, facendo anche emergere degli aspetti prima non considerati come l’effettiva distribuzione dei suoi benefici in modo equo nelle comunità interessate ai progetti e la tipologia delle opere. Khan ha poi accusato il Governo precedente di aver dissestato le finanze del Pakistan e di conseguenza annunciato la volontà di correre ai ripari partendo proprio dalla risoluzione degli squilibri nelle relazioni con la RPC. Il leader pakistano vorrebbe dunque ottenere da Pechino una riconsiderazione dei progetti che ponga maggior attenzione allo sviluppo sociale piuttosto che meramente alla costruzione di infrastrutture e che diluisca i termini di pagamento dei progetti finora avviati o conclusi, tagliandoli in parte se necessario.

Su questo frangente il Governo del Pakistan aveva già cominciato a muoversi nei mesi precedenti all’incontro. Ad ottobre ad esempio, il Ministro dei Trasporti Sheikh Rasheed aveva annunciato di voler tagliare di 2 miliardi i costi della Karachi-Peshawar Main Line-1 (ML-1), un piano di rilancio delle linee ferroviarie che collegano la città costiera di Karachi a Peshawar, nel Nord-Ovest del Paese. Il suo valore era già stato decurtato a settembre, quando il progetto era stato ridotto da 8,2 a 6,2 miliardi di dollari.

A fronte di queste richieste, la trattativa di Islamabad ha avuto successo soltanto parzialmente. La delegazione cinese si è infatti mostrata da una parte favorevole a concedere a Islamabad un prestito volto al miglioramento delle sue finanze, ma dall’altra molto restia a concordare su profondi cambiamenti della partnership e anzi decisa a proseguire sulla linea precedentemente concordata.

Il Governo cinese ha infatti aperto alla possibilità di un suo rimodellamento che consideri le richieste di una maggiore attenzione sull’aspetto sociale dell’iniziativa. In tal senso possono essere lette sia l’esortazione di Xi Jinping all’inizio il prima possibile di una seconda fase in cui gli investimenti verso le infrastrutture diminuiscano in favore di quelli incentrati sull’agricoltura e sulla creazione di distretti industriali, sia la firma il 3 novembre di 15 accordi in diversi campi tra cui l’agricoltura, l’alleviamento della povertà, la cooperazione industriale e quella tecnologica.

Allo stesso tempo però, Pechino ha rifiutato qualsiasi modifica che avesse potuto intaccare la sua portata e le priorità precedentemente stabilite. A conferma di questa indisponibilità del Governo cinese nel rivedere in profondità la cooperazione con il Pakistan, l’aiuto economico non è stato concesso immediatamente, ma posticipato ad un secondo momento, permettendo, di fatto, alla Cina di subordinare il suo sostegno finanziario ad una rassicurazione circa la continuazione dello sviluppo del CPEC.

Il punto è fondamentale, in quanto con il Pakistan potrebbe essere emersa una condizionalità che la RPC intende far rispettare ai suoi partner all’interno del quadro della BRI e che rischia di imbrigliare ulteriormente i Paesi già indebitati. Potrebbero infatti profilarsi nuovi casi di Paesi in difficoltà economica costretti a rinnovare i loro impegni nella BRI e, dunque, ad incrementare il proprio debito verso la Cina, in cambio di aiuti economici da Pechino.

Negli ultimi anni sono aumentate le accuse rivolte alla Cina di fare diplomazia del debito, ovvero di promuovere investimenti nei Paesi in via di sviluppo i cui costi sono difficilmente sostenibili dai diretti interessati, che vengono dunque ridotti in una situazione di debito e nel peggior dei casi costretti a concedere in leasing i loro asset statali.

La critica è sorta a seguito di alcuni casi come il Magampura Port di Hambatonta, in Sri Lanka, concesso in leasing per 99 anni alla China Merchants Port Holdings, in cambio di un taglio del debito di Colombo di 1,4 miliardi di dollari, e lo stesso Gwadar Port, punto nevralgico del CPEC, il cui accordo di investimento prevede la concessione del porto ad aziende cinesi per 43 anni.

Dal canto suo Pechino nel 2018 si è mostrata sensibile al tema in diverse occasioni. Il 18 aprile 2018 è stata inaugurata ad esempio da parte del Consiglio di Stato la China International Development Cooperation Agency (CIDCA), ente che avrà il ruolo di coordinare i vari attori preposti agli investimenti all’estero cinesi.

A settembre poi, il Vicepresidente del China’s National Development and Reform Commission Ning Jizhe ha firmato con il Ministro per la Pianificazione e lo Sviluppo pakistano Makhdoom Khursro Bakhtiar un accordo circa l’ingresso di investitori terzi nel CPEC, dando così un segnale di maggiore apertura e trasparenza dell’iniziativa.

Ancor più rilevante, nel novembre 2018 è stata pubblicata la bozza del “Measure for the Administration of Foreign Aid”, un documento che introduce la necessità di compiere più esaurienti valutazioni di fattibilità al riguardo dei progetti di investimento della RPC.

Queste manovre rischiano però di avere alla prova dei fatti un valore soltanto cosmetico, ovvero risultare azioni di facciata volte semplicemente a migliorare l’immagine dell’iniziativa cinese senza andare a rinnovare profondamente i suoi meccanismi.

A cinque anni dalla sua nascita, la BRI si trova ora ad un crocevia. Da come Pechino agirà nei confronti dei suoi partner strategici, come il Pakistan, e da come riuscirà a dare delle risposte ai lati più controversi della BRI ne deriverà infatti la reputazione del progetto nella comunità internazionale. Nello specifico, saranno queste le variabili che determineranno se il piano riuscirà a consolidarsi attraendo nuovi potenziali partner, in primis i Paesi europei o se, al contrario, la sua portata verrà ridotta dal prevalere delle considerazioni circa la sua eccessiva onerosità.

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