Il Climate Change genera conflitti e instabilità
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Il Climate Change genera conflitti e instabilità

22.10.2019

Gli effetti devastanti del clima intensificano le vulnerabilità delle aree povere del Mondo. Dove il vuoto governativo e la complessità sociale lasciano spazio a guerre tribali e a gruppi armati non statali. E’ emerso in una ricerca Cesi presentata a Roma

L’emergenza climatica rischia di minare l’equilibrio naturale del nostro pianeta, ma anche le interazioni economiche, politiche e di sicurezza tra gli esseri umani. Per dimostrare la  gravità di quest’ultimo fenomeno, Ce.S.I. ha presentato martedì scorso a Roma il rapporto Food and Security: il ruolo dello sfruttamento e della gestione delle risorse naturali nella ricerca jihadista di legittimazione sociale, realizzato grazie al sostegno della Fao, dove si evidenzia l’impatto che il clima ha sull’intensificazione di situazioni di crisi nelle aree povere del Mondo a cui i governi internazionali devono dare una risposta.

Secondo il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), se l’attuale livello di emissioni dei gas serra resterà costante, la temperatura media del nostro pianeta aumenterà di circa 1,5 gradi celsius tra il 2030 e il 2050 con effetti devastanti sull’equilibrio biologico planetario. Ma non solo.

I cambiamenti climatici infatti minano anche gli assetti economici e politici e compromettono la sicurezza umana acuendo i fattori di conflitto, povertà e vulnerabilità in territori caratterizzati da risorse inaccessibili. E’ il caso dell’Africa (ma anche del Medio Oriente e dell’Asia) dove la diminuzione delle terre fertili e la minore disponibilità dell’acqua stanno aumentando le tensioni tra gli Stati e tra i gruppi tribali ponendo le basi per l’incremento del potere di gruppi armati non statali.

Il clima crea conflitti

Molti gli esempi riportati nell’indagine ed emersi nel corso del dibattito a cui hanno partecipato attori della cooperazione. Un caso emblematico è quello del Fulani, un gruppo etnico di circa 25 milioni di individui sparsi nella cintura del Sahel dediti all’allevamento nomade del bestiame. Se fino a ieri questo gruppo di pastori aveva sviluppato una relazione simbiotica con le comunità sedentarie di agricoltori, basata sul principio del reciproco vantaggio, oggi con il cambiamento climatico che ha ridotto le risorse idriche e dei pascoli nel Sahel, questo rapporto è divenuto conflittuale. Peggiorato poi dalle politiche adottate dagli Stati che, privilegiando gli interessi degli agricoltori a scapito dei Fulani, hanno innescato una guerra non dichiarata che procede di pari passo con il deterioramento delle condizioni ambientali.

Una regolamentazione ambigua

Non va meglio in Mali dove il problema del clima è aggravato dall’ambiguità della regolamentazione dello sfruttamento delle risorse naturali e del suolo. Questa infatti deriva da consuetudini centenarie che, in molti casi, sono state ignorate dai sistemi giuridici sia francesi che maliani che hanno orientato le strategie di sviluppo verso la crescita del settore agricolo, a scapito degli interessi dei pastori. Anche in Burkina Faso ogni territorio è regolato da consuetudini non integrate con la regolamentazione statale che creano conflitti, a cui si aggiungono nepotismo e corruzione e una completa anarchia, nel caso del Niger. In Africa, ha spiegato Marco Di Liddo, senior analyst Ce.S.I., head of Africa Desk - Centro Studi Internazionali, anche se vige una legge statale, la vera regolamentazione è quella consuetudinaria e la mancata integrazione tra potere centrale e locale crea una situazione di ambiguità e conflittualità.

Un sistema alternativo allo Stato

Ed è sul vuoto istituzionale che prolifera un altro fenomeno che, sfruttando le difficoltà climatiche, sta minando il ripristino della normalità in Africa: quello delle organizzazioni jihadiste le quali utilizzano la loro capacità di fornire servizi educativi, assistenziali e di protezione degli interessi delle comunità emarginate per controllare l’accesso alle risorse naturali, incluso il raccolto e il bestiame.

Nell’ultimo decennio, ha confermato Di Liddo, le organizzazioni jihadiste si sono trasformate da movimenti ideologici sovversivi in strutture complesse con una forte impronta territoriale. Approfittando della debolezza della governance statale e del disagio socio-economico delle minoranze, le organizzazioni jihadiste si sono imposte - in alcuni casi come predatori, in altri con il consenso delle comunità - come attori in grado di creare un sistema alternativo alle istituzioni governative. La difesa degli interessi dei Fulani, la regolamentazione dell’accesso alle risorse idriche, la gestione di siccità e calamità naturali, la risoluzione dei conflitti relativi all’accesso alla terra e la gestione del mercato del grano sono alcuni esempi di come questi gruppi siano riusciti ad acquisire legittimità e sostegno popolare.

Sinergia tra privato e cooperazione

Oggi la chiave per neutralizzare questo fenomeno, sottovalutato dagli attori internazionali, sta nella messa a punto di una strategia a lungo termine che favorisca lo sviluppo economico, una migliore gestione delle risorse naturali e la risoluzione dei conflitti sociali. In questo senso, ha sottolineato Filippo Scammacca del Murgo, direzione generale cooperazione e sviluppo del ministero affari esteri italiano, la sinergia tra organizzazioni internazionali e settore privato è fondamentale, non solo per affrontare le emergenze umanitarie e contribuire alla stabilizzazione di aree precedentemente colpite dalla guerra, ma anche per risolvere le cause sociali ed economiche che sono alla base dei conflitti.

Le cose da fare

Il rapporto fornisce nello specifico le azioni da compiere per affrontare la situazione. In primis, va sostenuto l’operato dei governi dei paesi del Sahel e delle organizzazioni internazionali nella lotta al degrado ambientale e ai processi di desertificazione assegnando più fondi alla riforestazione e alla protezione delle biodiversità. Vanno resi più equi i meccanismi di accesso alle risorse naturali da parte dei gruppi sociali oggi in competizione tra loro. Vanno coinvolte le comunità locali e sostenuta l’azione dei leader tribali nel processo decisionale sui diritti fondiari integrando la legge consuetudinaria con quella statale. Vanno migliorati i meccanismi di mediazione sull’uso delle risorse idriche e terrestri, agevolando il dialogo tra pastori e agricoltori semi nomadi e creando aree di pascolo protette e meccanismi di localizzazione del bestiame delle comunità semi nomadi.

Ricostruire la fiducia

Molte scelte sbagliate hanno pesato sull’Africa così come sulle aree povere del mondo. A questi errori si aggiunge oggi il fenomeno climatico che rischia di generare una tempesta perfetta nelle aree più fragili del pianeta. Come è emerso nel dibattito sarebbe utile il ricorso alla tecnologia per creare un’agricoltura smart, la creazione di professionalità che sviluppino lavoro, ma soprattutto la creazione di quel legame di fiducia tra istituzioni e comunità locali che deve essere alla base di tutto.

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