Siria post-Assad: quale futuro per le promesse di riforma?
Medio Oriente e Nord Africa

Siria post-Assad: quale futuro per le promesse di riforma?

Di Giulia Riva
28.04.2025

Sono trascorsi quattro mesi e mezzo dalla capitolazione del regime di Bashar al-Assad, culminata con la presa di Damasco da parte del gruppo ribelle Hayat Tahrir al-Sham (HTS), l’8 dicembre 2024. Il capo delle milizie ribelli, conosciuto con il nome di guerra al-Jawlani ma il cui vero nome è Ahmed al-Sharaa, era emerso come il leader vittorioso che avrebbe sostituito il quinquagenario regime baathista e non ha perso tempo ad avviare un processo di “deradicalizzazione” della sua immagine, mostrandosi come unica alternativa valida per il futuro governo siriano. Al-Sharaa apparteneva, infatti, al gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, cellula siriana di al-Qaeda in Iraq che, insieme a quest’ultimo, avrebbe composto il sedicente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Tuttavia, tensioni interne all’organizzazione jihadista portarono a una cesura da al-Qaeda nel 2016 e all’indipendenza del gruppo armato siriano, autoproclamatosi “Hayat Tahrir al-Sham”.

All’indomani della caduta di Assad, al-Sharaa ha preso pubblicamente le distanze sia dalle pratiche brutali dell’ISIS che dalla visione jihadista di al-Qaeda, presentandosi come un modello di “combattente moderato”. In un’intervista alla CNN, a dicembre 2024 l’ex capo dei ribelli aveva affermato l’importanza di fornire alla Siria un quadro normativo finalizzato al rispetto di tutti i gruppi etnici e religiosi e di costruire delle istituzioni governative moderne. Nello stesso periodo, al-Sharaa aveva nominato Mohamed al-Bashir come Primo Ministro a capo della transizione di potere fino a marzo 2025. A distanza di qualche settimana, al-Sharaa è diventato Presidente a capo della Siria durante il periodo di transizione: ha dichiarato la dissoluzione del parlamento, l’annullamento della Costituzione del 2012 e l’integrazione delle forze armate ribelli nelle nuove file militari statali. A questi cambiamenti ha fatto seguito, il 25-26 febbraio 2025, il “Dialogo Nazionale”, un appuntamento fondamentale per discutere sul futuro della Siria, sulla riforma delle istituzioni, sul ruolo della società civile e delle libertà individuali e sul modello economico da adottare nel Paese. Teoricamente, il comitato avrebbe dovuto comprendere quattro gruppi di lavoro formati da almeno 600 persone, ma nei fatti gran parte della società siriana, insieme alle SDF (Forze Democratiche Siriane affiliate ai Curdi) è stata esclusa dai colloqui, suscitando critiche per la mancata rappresentanza dei Curdi e di altre minoranze. A titolo d’esempio, George Sabra, principale politico all’opposizione del regime di Assad in esilio in Francia, ha annunciato di aver ricevuto l’invito all’evento con strettissimo anticipo, motivo per il quale non ha potuto partecipare.

Il 13 marzo 2025, il Presidente siriano ad interim ha firmato la Dichiarazione costituzionale che sancisce l’inizio di una transizione della durata di 5 anni, a cui seguiranno le elezioni del capo dello stato. La Dichiarazione, composta da 44 articoli, sancisce la dottrina giuridica islamica come fonte principale del sistema legale siriano. Allo stesso tempo, si prefigge di garantire libertà di opinione ed espressione, così come i diritti delle donne all’istruzione e all’impiego, con l’obiettivo di proteggere i diritti di tutti i siriani sotto il nuovo regime. Abdulhamid al-Awak, uno dei membri del comitato adibito a redigere la nuova Costituzione, ha sottolineato l’assoluta separazione dei poteri. Nello specifico, un’assemblea di 100 membri a capo del potere legislativo, le autorità giudiziarie incaricate del potere giudiziario e il Presidente, con i suoi ministri, a capo dell’esecutivo. Inoltre, ma non diversamente dalla Costituzione emanata sotto Assad, la religione musulmana sarà requisito necessario per il capo dello Stato. Nonostante le promesse di respiro democratico, alcune criticità permangono. Ad esempio, la scarsa rappresentanza femminile nel governo ad interim, così come la forte impronta islamica della Dichiarazione costituzionale, sollevano incertezze su una Siria veramente inclusiva, plurale e laica. L’incognita islamista, dettata dal passato di al-Sharaa, permane nella mente di molti siriani, che rimangono scettici sulle garanzie dei diritti fondamentali del nuovo governo.

Nel frattempo, Ahmed al-Sharaa non ha esitato nell’impegnarsi a costruire relazioni diplomatiche per garantirsi la legittimazione politica sulla scena internazionale. Già il 2 febbraio 2025 il neopresidente si è recato a Riad per incontrare il principe Mohammed bin Salman, nel tentativo di dimostrare un avvicinamento ai Paesi del Golfo e un allontanamento dall’Iran, in netta rottura con il passato. Nonostante Assad avesse ricoperto un ruolo piuttosto marginale rispetto agli altri attori sopracitati, ha sempre costituito una base d’appoggio per l’Asse della Resistenza filo-iraniano, ospitando milizie e armi sul suo territorio. Un altro meeting degno di nota è quello tenutosi il 4 febbraio 2025 con Recep Erdogan, che ha espresso il suo pieno supporto ad al-Sharaa. Il presidente turco vede nella ricostruzione della Siria l’opportunità per consentire ai siriani rifugiatisi in Turchia durante la guerra civile siriana di ritornare in patria, in particolare nella zona a Nord della Siria dove sono stanziati i curdi, percepiti come una minaccia dalla Turchia per via dei legami col PKK, considerata un’organizzazione terroristica da Ankara. L’amicizia tra Siria e Turchia, per quanto auspicabile in termini generali, potrebbe compromettere seriamente l’integrità del popolo curdo.

Ma l’incontro cruciale è stato fra al-Sharaa e il presidente emiratino Mohammed bin Al Nahyan, lo scorso 13 aprile. Gli Emirati Arabi Uniti, come altri Paesi arabi, avevano tagliato le relazioni con Assad all’indomani dello scoppio della guerra civile siriana. Tuttavia, furono anche i primi a ripristinare i rapporti con Damasco nel 2018 e, nel 2023, a supportare la decisione della Lega Araba di riabilitare la Siria nell’organizzazione, dopo la sospensione sancita nel 2011. Nel 2024 gli Emirati avrebbero offerto ad Assad un’ “ancora di salvezza”, una possibilità di negoziato per distanziarsi dall’Iran sciita e garantirsi il favore de blocco arabo. Alla luce di queste dinamiche, gli Emirati Arabi Uniti mantengono una certa cautela sullo scacchiere internazionale. Soprattutto se si considera che, poco prima della sua fuga verso Mosca, Bashar al-Assad si è servito di un jet privato per trasferire ad Abu Dhabi denaro contante, oggetti di valore e documenti contenenti informazioni sul suo network di attività nel settore bancario, immobiliare, dell’energia e delle telecomunicazioni. Così, Assad avrebbe messo al sicuro il suo “impero” prima di rifugiarsi in Russia. È evidente come gli Emirati detengano un enorme potere negoziale, e potrebbero fungere da mediatore influente anche nei rapporti tra Siria e Israele, in quanto già nel 2020 avevano normalizzato i rapporti con Tel Aviv. Anche la Russia si è mostrata aperta alla cooperazione con al-Sharaa, in nome della “tradizionale amicizia russo-siriana”. Mosca, infatti, si era schierata con il regime baathista durante la guerra civile e continua a vantare due basi militari sulla costa siriana, una aerea a Hmeimim (Latakia) e una navale a Tartus. Infine, incontri diplomatici si sono tenuti con rappresentanti dell’Unione Europea, che si è detta pronta a dialogare e a sostenere una transizione pacifica, sperando, tra le righe, in una riduzione dei flussi migratori.

Se il nuovo indirizzo di politica estera siriana risulta chiaro, basato su una netta cesura con il passato e sulle garanzie di un sistema politico inclusivo, in ambito domestico si celano ancora molte incertezze. La volontà di costruire una Siria che rappresenti effettivamente la voce dei siriani si scontra con le recenti violenze avvenute ai danni della minoranza alawita (nota per essere vicina al regime di Assad), nella regione di Latakia. A inizio marzo milizie armate hanno preso d’assalto le abitazioni dei villaggi, picchiando e uccidendo intere famiglie. Secondo il Syrian Observatory for Human Rights, in pochi giorni circa 1.000 civili sono stati uccisi dalle milizie del governo di transizione siriano. Damasco ha riferito di indagare sugli attacchi, ma intanto i sentimenti settari permangono e ribollono nel tessuto sociale siriano. Alawiti, curdi, musulmani sunniti, cristiani: la pace civile fra le comunità etnoreligiose sembra essere ancora lontana. Il risanamento dell’economia, delle istituzioni e del sistema giuridico necessita di uno sforzo sociale e politico che vada di pari passo con l’inclusione e il pluralismo, elementi assenti durante l’era di Assad e ancora privi di riscontri concreti con al-Sharaa.

Il futuro è ancora incerto e pieno di incognite, ma una cosa è certa: la “nuova Siria” non può tollerare un governo radicale che trascura le minoranze, in quanto elementi intrinseci della Siria stessa. Il senso di appartenenza a una società eterogenea dev’essere il fulcro di una nuova cittadinanza siriana, che comprenda identità multilivello e che assicuri un’equa partecipazione della popolazione nel processo decisionale.