Rafah, tra annunci di tregua e ripresa dei combattimenti: il dilemma strategico di Israele
Medio Oriente e Nord Africa

Rafah, tra annunci di tregua e ripresa dei combattimenti: il dilemma strategico di Israele

Di Giuseppe Dentice
07.05.2024

Nelle ultime 48 ore si sono susseguiti una serie di eventi e situazioni che hanno contribuito in maniera sostanziale a ridefinire lo scenario militare e diplomatico di Gaza. Tutto ha avuto inizio nella notte del 5 maggio, quando Hamas ha lanciato alcuni razzi che hanno colpito Israele, provocando alcune vittime civili. Contestualmente le Israeli Defence Forces (IDF) rispondevano all’atto con massicci bombardamenti di artiglieria contro alcune postazioni di Hamas nei campi di al-Zahraa, al-Mughraqa e Nuseirat (nelle aree del centro-nord della Striscia di Gaza) e prendendo possesso del valico di Kerem Shalom, che divide l’enclave dal territorio israeliano. L’azione delle IDF però si è spinta oltre con l’annuncio il 6 maggio dell’ampliamento dell’area umanitaria di al-Mawasi (nel sud costiero della Striscia). Tale scelta sembrerebbe dettata dalla volontà politica di riprendere il controllo della fascia meridionale del territorio palestinese attraverso un’evacuazione forzata dei profughi palestinesi da Rafah e Khan Younis in direzione al-Mawasi per l’appunto (dove si stima arriveranno oltre 100.000 persone prossimamente), garantita anche dalla ripresa israeliana del lato gazawi del valico di Rafah. Tutte azioni che sembrerebbero suggerire un via libera da parte del gabinetto di guerra per il lancio della più volte annunciata operazione terrestre israeliana nella zona.

Contestualmente ai preparativi di guerra, poche ore più tardi giungeva inaspettato l’annuncio da parte di Hamas di aver accettato una proposta di cessate il fuoco a Gaza, i cui termini – per la verità ancora molto confusi viste le ricostruzioni dei media non sempre attendibili – sarebbero stati mediati da Egitto e Qatar, con un beneplacito statunitense, che avrebbe mandato su tutte le furie i rappresentanti di Tel Aviv. Sulla base dei dettagli annunciati dai funzionari di Hamas, la proposta dovrebbe prevedere un’articolazione del piano in tre fasi. La prima riguardante un periodo di cessate il fuoco di 42 giorni, nel quale Hamas rilascerebbe 33 ostaggi in cambio della scarcerazione di alcuni miliziani palestinesi detenuti nelle prigioni di Israele. In un secondo momento, Tel Aviv dovrebbe ritirare parzialmente le proprie truppe da Gaza e consentire la libera circolazione dei palestinesi dal sud al nord della Striscia. Passata questa fase preliminare si attiverebbe un altro periodo di 42 giorni solo soltanto se emergesse chiaramente una volontà delle parti nel ripristinare un clima di “calma sostenibile” a Gaza, che favorirebbe anche il restante ritiro completo delle truppe israeliane dall’area e il rilascio definitivo dei riservisti e dei soldati dell’IDF in mano ad Hamas. A coronamento di questo prolungato “silenzio delle armi” si giungerebbe, infine, all’ultimo passo: l’istituzione di un vero e proprio cessate il fuoco e l’avvio, tra le altre cose, di una fase di ricostruzione, con annessa fine del blocco totale israeliano della Striscia di Gaza, secondo il piano supervisionato e condiviso da Qatar, Egitto, USA e Nazioni Unite.

Sulla base delle indiscrezioni e delle informazioni frammentarie è molto complesso fare valutazioni precise, ma è plausibile immaginare che se i termini dell’accordo dovessero essere quelli qui presentati sarebbe molto difficile – al limite dell’impossibile – per Israele procedere ad un’accettazione della proposta egiziano-qatarina, mentre sarebbe decisamente più soddisfacente nelle loro aspettative continuare con un’operazione militare su Rafah. Il gabinetto di guerra israeliano anche nei giorni precedenti aveva spiegato la necessità di mantenere inalterata la sua azione su Gaza con o senza un accordo con Hamas, in quanto fondamentale e strategico per raggiungere il suo obiettivo primario: la distruzione e l’eradicazione dell’organizzazione islamista dall’enclave palestinese. Anche alla luce di queste evidenze, tanto la natura e i termini completi della proposta diplomatica accettata da Hamas, quanto la volontà israeliana di dare seguito all’ipotesi di accordo sono fondamentali per creare uno sviluppo positivo nella dinamica in atto, ma nessun attore (regionale e internazionale) coinvolto nei negoziati si è illuso che si sia effettivamente giunti ad un punto di svolta in virtù sia delle opposte posizioni dei contendenti, sia dell’operazione su Rafah ormai prossima ad entrare nel vivo dell’azione.

Proprio quest’ultimo elemento è fondamentale per comprendere il comportamento e il rischio calcolato tenuto da Hamas. Infatti, almeno fino al tardo pomeriggio del 6 maggio, l’organizzazione non aveva mostrato interesse alla proposta egiziano-qatarina. Il cambio di passo sembrerebbe suggerire che l’organizzazione islamista abbia voluto profittare della situazione per rimettere la palla nel campo avversario addossando tutte le responsabilità ad Israele nel caso di un suo diniego nel dare seguito alla tregua preferendo, invece, l’azione militare su Rafah. In quest’ottica, si potrebbe affermare che il colpo di teatro di Hamas è stato tanto furbo quanto politicamente importante per contribuire a indebolire la posizione di Tel Aviv. Non a caso, il movimento guidato da Ismail Haniyeh è ben consapevole del fatto che i mediatori israeliani non potranno accettare un qualsiasi negoziato che preveda il ritiro delle truppe israeliane da Gaza, la fine del blocco totale dei confini dell’enclave, ma soprattutto la permanenza al potere dell’organizzazione verso il quale lo stesso Benjamin Netanyahu ha dichiarato la loro distruzione come un obiettivo inconfutabile. Una posizione che al netto di un’accettazione in toto o in parte dell’intesa già approvata da Hamas, così come del suo rifiuto, esporrebbe Israele ad una difficile condizione di contestazione interna e ad alcune considerazioni di carattere strategico che il movimento islamista ben conosce e che ha già sfruttato proprio per lanciare quell’attacco tremendo al cuore del Paese il 7 ottobre 2023.

Nella prospettiva di Tel Aviv, l’accettazione o meno della proposta di Egitto e Qatar, così come l’avvio dell’operazione su Rafah pongono una serie di interrogativi su più fronti, nel quale Netanyahu gioca la sua solita partita di sopravvivenza politica. Se il suo governo dovesse dare seguito all’intesa e stoppare/posticipare l’operazione a Rafah, innegabilmente ne gioverebbe sul piano diplomatico godendo di un credito in risalita dopo le tempeste degli scorsi mesi. Questo però vorrebbe dire anche aprire una fronda interna, specie nel suo governo con i Ministri estremisti che minaccerebbero la caduta dell’esecutivo. Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich hanno chiaramente asserito che senza la distruzione di Hamas e la conquista di Rafah (e della Striscia nella sua interezza) il governo non avrebbe più motivo di esistere. Allo stesso tempo, anche figure più moderate nel gabinetto di guerra, come il titolare della Difesa Yoav Gallant o i Ministri Benny Gantz e Gady Eisenkot non hanno assunto una posizione chiara, tergiversando tra l’ipotesi di una tregua umanitaria più contenuta e l’ondivago opportunismo politico sull’operazione militare a Rafah in una sfida che sembra più orientata al domani del Paese e alla conquista dell’elettorato conservatore e della destra nazionale bacino di riferimento dell’attuale Premier. Però è altrettanto vero che anche dinanzi ad un rifiuto della proposta internazionale, emergerebbero chiaramente alcuni contraccolpi: Israele aggraverebbe la sua posizione e reputazione, sebbene potrebbe tenere in piedi quell’esecutivo che ora spingerebbe senza freni su Rafah. Tale situazione non eviterebbe, neanche, le contestazioni sociali domestiche da parte delle famiglie degli ostaggi, i quali chiedono garanzie al governo per non mettere a repentaglio la vita dei loro cari. In entrambi i casi, Tel Aviv sarebbe messa in discussione e rischierebbe di perdere credibilità interna ed esterna, a cui si aggiungerebbe il dilemma politico e di sicurezza (sostenuto soprattutto dall’establishment militare) legato alla mancata eradicazione di Hamas.

Uno scenario così fluido e imprevedibile con ripercussioni potenziali anche sui diversi piani del contesto regionale e internazionale. Infatti, una ripresa delle armi a Rafah, avrebbe l’opportunità di attivare in maniera diversa da quanto avvenuto fino ad oggi lo scenario libanese (dove da giorni si susseguono violenti scambi a fuoco nelle aree di confine lungo la Blue Line) e condurre ad un peggioramento delle condizioni di sicurezza in Cisgiordania (specie nel triangolo tra Tulkarem-Nablus-Jenin, dove i raid delle IDF sono diventati pressanti). Una situazione simile potrebbe aprire il fianco alle azioni esterne di altri attori interessati all’instabilità come l’Iran, il quale si gioverebbe del ruolo esercitato dai suoi proxies in Siria e Iraq, nonché della potenziale e rinnovata minaccia da parte delle milizie yemenite degli Houthi per esercitare pressioni nei confronti di Israele, ma anche verso altri soggetti regionali coinvolti nelle dinamiche in atto – il pensiero in questi casi procede essenzialmente su Egitto, Giordania e Arabia Saudita, i quali per motivi differenti hanno tanto e forse anche troppo da perdere da un imbarbarimento dello scenario gazawi.

Non meno divisivo deve essere considerato l’impatto internazionale del rifiuto di Tel Aviv alla proposta egiziano-qatarina, soprattutto per come gli Stati Uniti si sono spesi in queste settimane nel cercare di convincere l’alleato a rivedere le sue posizioni sull’Iran e spingere in favore di un’attenzione particolare al piano umanitario di Gaza. In questo senso, Washington si è espressa chiaramente ammonendo l’alleato sui rischi connessi ad un eventuale errore valutazione che potrebbe aprire a considerazione di vario genere. Non a caso, la Casa Bianca può sempre far valere il tema dei rifornimenti militari come strumento di pressione. Proprio la scorsa settimana, gli Stati Uniti hanno sospeso una spedizione di munizioni a Israele, senza fornire dettagli sui motivi. Potrebbe essere stato un semplice errore burocratico oppure un segnale, ma è evidente che arrivare a ipotizzare tale scenario fornirebbe nuovi spazi e considerazioni ai detrattori interni ed esterni all’Amministrazione Biden. Specularmente, uno sviluppo del genere potrebbe dare nuovo slancio al Premier israeliano Netanyahu, che non ha mai nascosto il suo scarso feeling con quasi tutte le Presidenze USA con le quali ha collaborato nei suoi 15 anni di governi. Con la sola eccezione dell’Amministrazione Trump, che in contesto post-elettorale americano potrebbe tornare a vedere il tycoon newyorkese quale nuovo inquilino alla Casa Bianca e partner di riferimento di Israele in Medio Oriente.

Pertanto, le valutazioni rimangono complesse e fortemente suscettibili di cambiamenti a causa della mutevolezza dello scenario locale. Tuttavia è innegabile che da questa iniziativa Israele ha tanto da perdere e il rischio concreto è che Hamas abbia attentamente valutato questo “tranello” con l’intento di indebolire ulteriormente Tel Aviv.

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