Nuovi scontri in Cisgiordania: gli sviluppi dell’operazione a Jenin
Medio Oriente e Nord Africa

Nuovi scontri in Cisgiordania: gli sviluppi dell’operazione a Jenin

Di Claudia Ferrotti
05.07.2023

Il 4 luglio, dopo l’attacco alla città di Jenin, nel nord della Cisgiordania, avvenuto tra la notte di domenica 2 e lunedì 3 luglio, le Forze di difesa israeliane (IDF) si sono ritirate. Si è trattato della più grande operazione militare organizzata da Israele degli ultimi 20 anni, il cui scopo era quello di sradicare e contrastare il terrorismo nell’area. Nonostante ciò, la brevità e l’intensità dell’operazione offrono una prospettiva diversa che esula dalla sola finalità anti-terroristica.

L’attacco a Jenin si inserisce in una più ampia cornice di disordini e tensioni che hanno coinvolto l’area dal 2021 con le forti proteste di Gerusalemme. Sebbene quindi l’attacco non si scosti molto, per interessi geografici e finalità politiche, dai casi precedenti, quello di Jenin è il più eclatante in termini di portata. Infatti, si parla di un migliaio di soldati a sostegno di un’operazione fortemente caldeggiata e sostenuta dall’estrema destra israeliana.

L’obiettivo dichiarato da Tel Aviv non risulta però coerente con l’impatto che l’operazione ha avuto sulla popolazione palestinese. L’offensiva israeliana è parsa quindi eccessiva se comparata con le potenzialità, ad oggi attestate, dei gruppi armati presenti in Cisgiordania. Sembrerebbe allora che oltre alle finalità anti-terroristiche si unisca la necessità di ristabilire il controllo di Tel Aviv sull’area, attuando un’operazione volta a colpire i militanti palestinesi e i loro rifornimenti di armi.

Sebbene Israele abbia più volte dichiarato lo scopo prettamente anti-terroristico dell’operazione, la crescente portata degli attacchi e la pressione dei coloni sui territori palestinesi indicano che le violenze potrebbero continuare, assecondando le necessità domestiche di Tel Aviv.

Il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha subito condannato l’attacco e successivamente ha dichiarato interrotto il coordinamento sulla sicurezza con Israele. Questa presa di posizione, se inserita nel più ampio contesto di attacchi che si verificano dal 2021, non stupisce particolarmente e probabilmente non è destinata a sortire alcun effetto, come è successo per le precedenti. Dal canto loro, i diversi movimenti di resistenza palestinesi, insoddisfatti delle politiche dell’ANP e delle iniziative di sicurezza israeliane, vedono nella lotta armata l’unica ancora di salvezza. Al momento, quindi, la reazione palestinese si muove in continuità con l’attentato di Tel Aviv, ossia una risposta reputata adatta e bilanciata rispetto all’azione militare israeliana a Jenin.

Al netto di ciò, la situazione israelo-palestinese non è destinata ad evolversi in senso decisivo per nessuna delle due entità. Il continuo ricorrere alla lotta armata dall’una e dall’altra parte indica l’assenza di alternative percorribili, o quantomeno l’incompatibilità di visioni sul raggiungimento di un accordo. L’inasprimento delle risposte delle due parti è dettato dalla mancanza di incentivi e prospettive politiche volte ad attenuare le sorti del conflitto. Al contempo, anche la comunità internazionale sembra non interessarsi particolarmente alla vicenda e continua a proporre delle soluzioni irrealistiche e poco coerenti con la situazione attuale, come la creazione di due Stati separati, uno israeliano e l’altro palestinese.

Dunque, non è plausibile ragionare concretamente su nessun orizzonte politico o diplomatico, almeno fino a quando il livello delle tensioni sarà così alto. Al contempo, sia sul versante israeliano sia su quello palestinese, seppur con motivazioni differenti, il ricorso alla violenza armata pare divenire l’unico elemento politico per regolare i conti tra le parti.

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