L’Iraq nel conflitto Israele-Iran, tra neutralità precaria e pressioni regionali
Nel contesto dell’ostilità tra Israele e Iran, l’Iraq si trova in una posizione geopolitica estremamente delicata. Collocato al centro del “crocevia della crisi”, Baghdad cerca di preservare la propria sovranità ed evitare il coinvolgimento diretto in un conflitto regionale che, pur essendosi concluso nella fase cinetica (durata 12 giorni, dal 13 al 24 giugno), rischia di prolungarsi nel futuro prossimo, tanto nelle già contemplate forme di covert war degli ultimi anni quanto in un’eventuale riacutizzazione dello scontro convenzionale. Tuttavia, le dinamiche interne, il peso delle milizie filo-iraniane, la presenza militare statunitense e le vulnerabilità economiche limitano la sua capacità di manovra.
La crisi è esplosa il 13 giugno, quando Israele ha iniziato una serie di operazioni militari contro obiettivi sul territorio iraniano, impiegando lo spazio aereo iracheno come corridoio strategico. L’utilizzo non autorizzato dello spazio aereo ha generato una reazione bipartisan a Baghdad: il Primo ministro Muhammad Shia’ al-Sudani, insieme al presidente Abdul Latif Rashid e ai vertici parlamentari e giudiziari, hanno condannato “l’aggressione flagrante” di Israele. La reazione si è rivelata peraltro come selettiva, dal momento che quando gli Stati Uniti hanno colpito (23 giugno) tre impianti nucleari iraniani e Teheran ha replicato lanciando missili sulla base americana di Al-Udeid in Qatar, la risposta ufficiale irachena è stata più contenuta.
L’asimmetria nel tono riflette le contraddizioni della politica irachena: mentre l’esecutivo cerca una postura di equidistanza, le pressioni parallele (da Teheran, da Washington e dagli attori armati interni) ne riducono il margine di azione.
L’Iraq ospita ancora truppe statunitensi nell’ambito della Coalizione internazionale contro l’ISIS (Daesh), pur avendo ribadito di recente che tale missione terminerà a settembre 2026, benché tale circostanza non escluda future cooperazioni bilaterali (da concordare) in materia di sicurezza. Allo stesso tempo, Baghdad è il secondo maggior beneficiario delle forniture energetiche iraniane, tra cui gas essenziale per il funzionamento della sua fragile rete elettrica, senza contare la presenza di numerose milizie sciite armate filo-iraniane.
La “guerra dei 12 giorni” tra Israele e Iran ha palesato quanto queste due dipendenze possano entrare in contraddizione. Da un lato, la presenza statunitense rende l’Iraq un potenziale obiettivo in caso di rappresaglie iraniane. Dall’altro, le milizie filo-iraniane presenti sul territorio costituiscono una rete di influenza parallela allo Stato centrale, potenzialmente capace di trascinare il Paese in un conflitto senza il consenso ufficiale di Baghdad. Non è un caso che, dopo i raid americani contro i tre siti nucleari iraniani, siano circolate celebrazioni simboliche a Baghdad, con bandiere dell’Iran e delle milizie sciite issate in piazza Tahrir. Il governo iracheno ha invece mantenuto la sua formale linea di neutralità, amplificando il fermento nella galassia sciita. A titolo esemplificativo, la retorica di Qais al-Khazali, leader di Asa’ib Ahl al-Haq (partito politico e formazione paramilitare sciita radicale), secondo cui l’espulsione (con la forza) degli USA dal suolo iracheno è “dovere religioso e nazionale”, suona come un monito.
Come se non bastasse, nei giorni immediatamente successivi al conflitto israelo-iraniano, diverse installazioni radar militari in Iraq sono state colpite da attacchi coordinati di origine incerta. Le autorità irachene hanno bollato gli episodi come un “atto codardo”, ma l’attribuzione resta incerta: per alcuni analisti si tratterebbe di operazioni israeliane contro obiettivi sensibili; altri osservatori ravvisano invece un gioco interno tra milizie per ricalibrare l’equilibrio domestico. In entrambi i casi traspare la percezione di uno Stato centrale vulnerabile, con una capacità limitata di garantire la sicurezza dei propri asset strategici.
In risposta al crescente rischio di essere coinvolto come teatro operativo, Baghdad ha prolungato la chiusura dello spazio aereo nazionale e annunciato l’accelerazione nella consegna di sistemi di difesa antiaerea sudcoreani. La mossa, benché simbolica, mostra l’intenzione, o quantomeno l’auspicio, dell’esecutivo di rafforzare la propria autonomia difensiva. Ciò nondimeno, l’assenza di un sistema radar integrato, la dipendenza da alleanze esterne e l’indebolimento progressivo delle forze armate statali rendono questo sforzo alquanto limitato. Inoltre, l’efficacia della chiusura dello spazio aereo come strumento dissuasivo è stata messa in discussione, soprattutto considerando la possibilità che attori esterni violino tali restrizioni senza conseguenze pratiche.
Oltre alla sfera militare, il conflitto Israele-Iran ha riproposto un’altra criticità dell’Iraq, segnatamente la dipendenza energetica. Proprio durante l’apice della crisi, l’Iran ha dimezzato le forniture di gas verso Baghdad, passando da 55 a 25 milioni di metri cubi al giorno, causando un crollo del 15% della capacità di generazione elettrica irachena, con il blocco di diversi impianti e un deficit di 3.800 megawatt. Al netto dei tentativi del Ministero dell’Elettricità di supplire con forniture diesel di emergenza, l’episodio ha messo a nudo una dipendenza che può essere utilizzata come leva politica da Teheran. La riduzione della materia prima iraniana sarebbe da ricondursi a manutenzioni e alla priorità verso la domanda domestica dell’Iran, ma la tempistica solleva dubbi sulla sua reale natura, considerando che, in passato, analoghi tagli alle forniture verso l’Iraq sono stati giustificati da debiti non pagati (legati alle sanzioni USA contro Teheran).
Il Primo ministro Sudani si muove in un contesto in cui ogni scelta può avere conseguenze critiche. Un allineamento con l’Iran comporterebbe il rischio di isolamento internazionale e dell’imposizione di sanzioni, oltre a indebolire i legami con Washington e con le istituzioni finanziarie multilaterali. D’altro canto, una condanna troppo netta dell’Iran, o un eccessivo supporto alla presenza americana, sarebbe suscettibile di innescare una reazione violenta da parte delle milizie sciite, compromettendo la tenuta del suo governo, alla vigilia delle delicate elezioni parlamentari irachene in programma per novembre 2025.
La strategia di Sudani, finora, è assimilabile a una complessiva “gestione del danno”, che ha incluso una certa neutralità retorica, il contenimento degli incidenti, alcuni tentativi (al momento velleitari) di rafforzamento dell’autonomia difensiva e l’intensificazione dei canali diplomatici con i partner regionali e internazionali.
Nel breve termine, l’Iraq sarà verosimilmente uno dei principali test per misurare la tenuta dell’equilibrio regionale, scosso dagli eventi post-7 ottobre 2023 e in fase di rimodellamento. Qualora il cessate il fuoco tra Iran e Israele dovesse reggere, Baghdad potrebbe giocare un ruolo di mediatore silenzioso, rafforzando il proprio profilo come attore di stabilizzazione. Al contrario, se la tregua dovesse interrompersi, la combinazione tra vulnerabilità militare, dipendenza energetica, divisioni politiche domestiche e potere delle milizie sciite rischia di trasformare l’Iraq nel primo potenziale teatro di espansione del conflitto. In quel caso, il Paese potrebbe perdere ogni velleità di neutralità, diventando terreno di scontro tra forze troppo grandi per essere contenute.
In sostanza, l’Iraq affronta una crisi sistemica aggravata da fattori esogeni. Il conflitto Israele-Iran ha reso evidenti le sue debolezze strutturali: sovranità incompleta, capacità difensive inadeguate, dipendenza energetica e pressioni delle milizie sciite interne. La politica dell’equilibrio perseguita da Baghdad è razionale, ma rischia di essere insufficiente di fronte all’eventuale riacutizzazione del confronto regionale tra Israele e Iran.
Il destino dell’Iraq, ancora una volta, non dipenderà solo dalle sue scelte, ma anche dalla capacità (o dall’incapacità) del contesto regionale di contenere la spirale escalatoria. In questo senso, Baghdad rimane il simbolo per eccellenza della sfida mediorientale: sopravvivere senza assumere uno schieramento netto. L’Iraq odierno rappresenta l’archetipo di uno Stato conteso: simbolicamente neutrale ma strutturalmente esposto. Una neutralità fragile, costantemente messa alla prova da eventi esterni e pressioni interne.
Photo Credits: An Iraqi holds a picture of Major General Hossein Salami, head of the Iranian Revolutionary Guard, who was killed in an Israeli airstrike in Tehran, with another holding a cutout of Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu with a shoe around the neck during a protest in Baghdad © AHMAD AL-RUBAYE / AFP.