L’impatto del Covid-19 sui processi di diversificazione economica dei Paesi del Golfo
Medio Oriente e Nord Africa

L’impatto del Covid-19 sui processi di diversificazione economica dei Paesi del Golfo

Di Simone Acquaviva
23.04.2020

Nonostante, al 22 aprile, la pandemia causata dal Covid-19 abbia colpito i Paesi del Golfo con un’intensità minore rispetto ai Paesi occidentali e dell’estremo oriente  (i 6 Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo registrano circa 35000 casi con 209 decessi, la maggior parte dei quali in Arabia Saudita), anche le Monarchie della Penisola Arabica hanno adottato forti misure di contenimento a livello sanitario e si apprestano a gestire le inevitabili ripercussioni di una crisi economica mondiale.

A livello globale, la pandemia da Covid-19 sta provocando un doppio shock economico, di offerta quanto di domanda. Il primo è inevitabilmente causato dal rallentamento alla produzione nella maggior parte dei Paesi, l’interruzione delle catene produttive (supply chain) internazionali, l’aumento dei costi (per via anche della dilatazione dei tempi) di trasporto. Il secondo deriva dall’ovvia riduzione della spesa per consumi dovuta alle misure di quarantena e di distanziamento sociale, mentre la contrazione dei redditi causata dall’aumento della disoccupazione, oltre all’incertezza per il futuro, contribuiscono a frenare la propensione al consumo dei privati.

Nello specifico dei Paesi del Golfo, a fare maggiormente le spese della crisi sono settori relativamente importanti per le economie locali quali turismo (inclusa la crisi delle compagnie aeree) e costruzioni. L’Arabia Saudita ha sospeso i pellegrinaggi minori (u__mrah) verso i luoghi santi dell’Islam, e sta paventando la possibilità di posticipare l’annuale pellegrinaggio maggiore (hajj) verso la Sacra Moschea della Mecca previsto per luglio. Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) si interrogano sul futuro di Expo Dubai 2020, al momento rinviato di un anno. Per quanto riguarda l’edilizia, ed in generale le industrie ad alta intensità di lavoro, dipendenti dalla manodopera straniera, le misure di contenimento degli spostamenti, nei Paesi del Golfo quanto in quelli di origine dei lavoratori, rischiano di avere un forte impatto sulla sostenibilità di tali settori. Il rimpatrio dei lavoratori stranieri, inoltre, sta diventando fonte di forte tensione tra le Monarchie del Golfo e molti paesi di origine (India, Pakistan, Filippine su tutti), per via delle difficoltà (e riluttanze) dei primi a gestire un alto numero di migranti rimasti senza occupazione e con scarsi mezzi di sostentamento, la cui presenza è fonte di possibili tensioni sociali e maggiori rischi di contagio, oltre alle problematiche dei secondi nell’organizzare rimpatri alla luce delle difficoltà interne nella gestione della pandemia.

Al fine di attenuare gli effetti negativi della recessione, perciò, sulla scia di quanto avviene nel resto dei Paesi industrializzati, le Monarchie del Golfo stanno implementando misure di politica monetaria e fiscale al fine di sostenere le economie locali. In particolare, ad oggi, gli Emirati hanno messo per ora in campo stimoli per 34 miliardi di dollari, l’Arabia Saudita per  32 ed il Qatar per 23.

Nonostante ciò, peculiarità delle economie del Golfo è la presenza contemporanea di un ulteriore shock, di tipo fiscale, derivante dal crollo del prezzo degli idrocarburi, dai quali dipende la sostenibilità del budget di questi Paesi. Tale evento ha come naturale origine la forte contrazione,  stimata attorno al 30%, della domanda globale di greggio, causata dal rallentamento della produzione cinese e successivamente mondiale.

La contemporanea presenza di abbondante offerta di greggio nei mercati mondiali, d’altro canto, ha portato ad un rapido crollo dei prezzi ed ha innescato dinamiche di competizione tra i maggiori Paesi esportatori, in particolare  tra Arabia Saudita e Russia. Queste hanno avuto inizio a seguito del nulla di fatto scaturito in occasione della riunione OPEC plus del 6 marzo 2020, convocata per decidere sul taglio della produzione mondiale di circa 1,5 milioni di barili al giorno, bloccato per via del rifiuto russo. In assenza di un accordo sulle quote di produzione, i sauditi hanno così provato ad acquisire il più possibile percentuali di mercato, aumentando i livelli di produzione e praticando forti sconti sulla vendita del proprio greggio. La dinamica competitiva ha così portato ad un crollo delle quotazioni del greggio, con prezzi medi attorno ai 30 dollari e punte inferiori ai 20.

La strategia saudita, oltre che in una dinamica di concorrenza con Mosca, puntava ad indebolire le aziende che commercializzano shale americano, la categoria di idrocarburi non convenzionali la cui estrazione, ottenuta tramite fracking degli scisti bituminosi, e produzione, richiede costi maggiori rispetto ai metodi d’estrazione tradizionale. Va ricordato come proprio la commercializzazione dello shale americano, iniziata a partire dal 2014, aveva provocato la stabilizzazione del prezzo del petrolio di lungo periodo ad una cifra oscillante tra i 40 e i 60 dollari al barile (contro i 100 dell’era immediatamente precedente), rivoluzionando così il mercato degli idrocarburi ed in generale la geopolitica mondiale del risorse energetiche.

Dopo un mese di guerra sui prezzi, lo scorso 12 aprile, in occasione di una nuova riunione OPEC plus, i Paesi produttori hanno concordato uno storico taglio pari a 9,7 milioni di barili al giorno, circa il 10% della produzione mondiale. Nello specifico, le nuove quote di produzione saranno tenute in vigore per due anni a partire dal 1 maggio, ma con livelli di riduzione decrescenti. Per i primi 2 mesi, infatti, il taglio sarà pari ai 9,7 milioni annunciati. Successivamente sarà ridotto a 7,6 milioni per la restante parte del 2020 e 5,6 milioni fino ad aprile 2022. Al calo della produzione dei paesi OPEC plus dovrebbero allinearsi altri Paesi esterni al cartello quali Canada e Norvegia, mentre la produzione delle aziende USA (dove la normativa antitrust vieta di adeguarsi automaticamente ad una simile decisione) è comunque calata per via dei bassi prezzi e la contrazione della domanda.

L’accordo, una volta in vigore, dovrebbe così dare respiro ad un mercato petrolifero in affanno ed attraversato da forti tensioni, come dimostra lo storico crollo del prezzo del barile con consegna a maggio sul WTI texano (uno dei due indici benchmark, assieme al Brent europeo, del mercato del greggio), che lo scorso 20 aprile ha toccato territorio negativo chiudendo a quota -37 dollari. Al netto di questo evento eccezionale, causato dalla saturazione della capacità di stoccaggio del petrolio americano, al 23 aprile il greggio veniva scambiato attorno ai 15 dollari sul WTI (20 sul Brent), sintomo della  debolezza del settore. La nuova policy adottata in sede OPEC+, con tutta probabilità, non dovrebbe comunque esser sufficiente a risolvere le problematiche di bilancio dei Paesi del Golfo, almeno nell’immediato. La quota di taglio della produzione di greggio, di fatti, è inferiore (meno della metà) al calo di domanda mondiale, mentre diverse previsioni scommettono su un ritorno dei prezzi attorno ai 40 dollari non prima del terzo trimestre dell’anno.

Gli effetti della doppia crisi da Covid-19 e guerra petrolifera  rischiano perciò di ripercuotersi con violenza sul bilancio saudita ed in generale dei Paesi del Golfo. E bene ricordare, di fatti, come il Fiscal Breakeven Oil Price (punto di pareggio di bilancio in relazione al prezzo del petrolio) dell’Arabia Saudita sia di circa 83 dollari al barile, 88  per l’Oman, 92 per il Bahrein e 70 per gli Emirati Arabi Uniti. Inoltre, con una forte diminuzione della domanda di petrolio per il 2020, il livello del Fiscal Breakeven non può che salire, richiedendo perciò in teoria un maggiore prezzo al fine di garantire la stabilità dei bilanci delle Nazioni dipendenti dall’export di idrocarburi.

Una diminuzione delle entrate derivanti dalla vendita del greggio (per effetto quantità, per effetto prezzo o per il combinato disposto di entrambi), richiederà perciò un sforzo doppio a livello di politica fiscale dei Paesi del Golfo. Questi saranno costretti da un lato a ridurre le spese in luce dei minori proventi delle rendite petrolifere, come dimostra del resto l’annuncio di un taglio di budget di circa 13 miliardi di dollari da parte del governo saudita, una mossa inevitabile vista la situazione, ma in contrasto con la teoria economica che prevede spese anti-cicliche in periodi di crisi. Dall’altro lato però, i Paesi del Golfo dovranno prevedere misure di sostegno all’economia, in tal modo andando a gonfiare il livello di debito pubblico, con deficit di bilancio per il 2020 che dovrebbero toccare la doppia cifra.

Il crollo delle entrate, e quindi la conseguente riduzione delle spese, potrebbe portare a sacrificare alcuni degli investimenti che i Paesi del Golfo, in particolare Arabia Saudita ed Emirati, hanno programmato ed inserito nelle loro strategie di lungo periodo.

Nel caso saudita, ad esempio, la strategia Vision 2030, lanciata nell’aprile 2016 dal Principe ereditario Mohammad bin Salman, prevede un processo di diversificazione economica ed energetica volto a sganciare le prospettive di prosperità futura del Paese dalle sole rendite petrolifere. L’obiettivo di fondo è quello di attuare politiche di crescita economica, aumentando il contributo del settore privato, fornendo incentivi alla partecipazione attiva della popolazione al lavoro e quindi riducendo il livello di disoccupazione anche attraverso il contributo dell’occupazione femminile. Il Paese punta inoltre ad aumentare la quota delle esportazioni non petrolifere, il livello di investimenti esteri ed in generale a migliorare il business climate del Paese. Simbolo di questo piano è la quotazione record, con una capitalizzazione di circa 1.800 miliardi di dollari, avvenuta lo scorso 11 dicembre, della compagnia petrolifera saudita Aramco. Dalla vendita di una quota di azioni di Aramco, oltre che della petrolchimica Sabic e altri asset statali, il governo saudita punta ad rimpinguare il fondo di investimento pubblico utile a finanziare le opere infrastrutturali ed energetiche per la diversificazione economica del Paese.

Il Regno punta di fatti a massicci investimenti interni nel settore dell’energia solare e nucleare, al fine di garantire autosufficienza energetica (in relazione alla crescente domanda interna frutto dell’aumento della popolazione e dei tassi di urbanizzazione) e liberare quote di produzione petrolifera da destinare all’export. Se il programma nucleare saudita potrebbe costare fino ad 80 miliardi di dollari, forti investimenti sono in cantiere anche nel solare, dove è in fase di ultimazione l’enorme sito di produzione di Sakaka, nel nord del Paese. Similmente a Riyadh, Abu Dhabi ha lanciato la centrale solare di Sweihan,  operativa dallo scorso luglio, mentre da poco più di due mesi è in funzione il primo sito nucleare della Penisola Arabica, a Barakah.

Oltre ai piani di transizione energetica, la visione saudita ha finora previsto l’annuncio di diversi progetti infrastrutturali, dai più convenzionali, quali il parco urbano “King Salaman” nella capitale e le nuove metro di Riyad e Jedda, a quelli più avveniristici, come il progetto riguardante la smart city Neom, megalopoli che dovrebbe sorgere nella parte nord-occidentale del Paese, sulle sponde del Mar Rosso, i cui costi sono stimati attorno ai 500 miliardi di dollari.

Alla luce degli effetti economici della pandemia globale, una parte di questi progetti potrebbe essere sospesa, rimandata o addirittura sacrificata. Nonostante ciò, la scelta per i governi delle Monarchie del Golfo si presenta particolarmente complessa, per il ruolo che questi investimenti hanno sulla crescita futura. Un’economia diversificata, di fatti, può reagire in maniera più efficace a shock di vario tipo, e si presenterebbe perciò come un’assicurazione sulla tenuta sistemica in vista delle prossime crisi.

Dal punto di vista della teoria economica, va inoltre aggiunta la considerazione che, in periodi come quello attuale di forte contrazione di quasi tutte le voci del PIL (consumi, investimenti ed esportazioni nette), solo la spesa pubblica può contribuire a controbilanciare gli squilibri causati dagli shock di domanda e offerta. In particolare, la spesa pubblica per investimenti, quella che presenta l’effetto moltiplicativo maggiore (a differenza dei sussidi, di fatti, tutti i soldi stanziati  in investimenti vengono effettivamente spesi), è particolarmente indicata in periodi di crisi di consumi. Sotto un certo punto di vista, perciò, la crisi potrebbe fornire ulteriori incentivi ai Paesi del Golfo nell’intensificare i progetti di diversificazione economica in cantiere. D’altro canto, le Monarchie della Penisola Arabica avrebbero sufficienti spazi di manovra per aumentare i propri debiti sovrani, che al momento si attestano a livelli molto bassi rispetto agli standard dei paesi industrializzati (il rapporto debito/PIL dell’Arabia Saudita è del 23%, quello degli Emirati del 19%).

Per agevolare l’indebitamento nell’immediato, le Monarchie del Golfo potrebbero fornire segnali concreti della volontà di implementare un sistema di tassazione in linea con l’obiettivo di trasformare questi Stati in economie mature. Lo spazio a disposizione è molto ampio. La tassazione sui redditi è 0 in Arabia Saudita (20% sui profitti di cittadini provenienti al di fuori delle Monarchie del Golfo) e negli Emirati, mente l’IVA massima è del 5% in entrambe le nazioni.

Nonostante ciò, l’implementazione di tali riforme scotta diversi problemi: infatti, la richiesta di un maggiore contributo da parte dei privati (sotto forma di minori sussidi o di maggiori tasse) potrebbe risultare controproducente in termini di stabilità sociale e politica, soprattutto in quei Paesi dove il patto sociale si basa, di fatto, anche sull’assenza o su livelli molto bassi di tassazione.

Nel caso saudita, nonostante non siano stati forniti dettagli ufficiali su quali voci di spesa saranno tagliate per far fronte alle minori entrate petrolifere, è possibile ipotizzare che gli al-Saud favoriranno contrazioni di spesa con il più basso costo sociale possibile, e che cerchino di garantire il più possibile il mantenimento dei livelli occupazionali nel settore pubblico, degli stipendi e dei sussidi. Nella gestione del crisi, il Principe ereditario Mohammad bin Salman dovrà perciò tenere in conto non solo le prospettive di crescita, ma anche il consenso interno. D’altronde, la sua successione designata all’ottantaquattrenne Re Salman appare ancora incerta. Lo testimonia l’ulteriore stretta repressiva avvenuta nel marzo scorso, che ha portato all’arresto di alcuni membri della famiglia reale, tra i quali il principe Ahmed bin Abdul Aziz, il fratello più giovane del Re Salman, e Mohammed bin Nayef, ex Principe ereditario e Ministro degli Interni.

Dunque, in un periodo di crisi così profondo e dai risvolti incerti per tutti i Paesi del Golfo, i calcoli politici volti a privilegiare la spesa per il consenso potrebbero prevalere rispetto a logiche di crescita economica di lungo periodo. Da quest’ultima, d’altro canto, dipende la prosperità futura dei Paesi dipendenti dall’export di idrocarburi. Anche da un corretto bilanciamento di queste due esigenze passeranno le prospettive di successo delle strategie di diversificazione economica delle Monarchie del Golfo.

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