L’effetto dei dazi americani sul ruolo globale del dollaro
Geoeconomia

L’effetto dei dazi americani sul ruolo globale del dollaro

Di Paolo Camerotto
30.04.2025

La politica commerciale del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scosso l’economia internazionale negli ultimi mesi, minando il rapporto con i principali partner commerciali e rilanciando l’offensiva commerciale contro la Cina. Lo scorso 2 aprile, il Presidente ha annunciato un’aliquota base del 10% su tutte le importazioni statunitensi, con tariffe più elevate per i Paesi che detengono un significativo surplus commerciale sugli Stati Uniti. Il Paese più colpito dai dazi, entrati ufficialmente in vigore il 5 aprile, è proprio la Cina, che dovrà pagare un’aliquota totale del 145% sui prodotti esportati negli Stati Uniti.

I mercati globali hanno reagito negativamente alla politica protezionista statunitense, con crolli azionari generalizzati e crescente insicurezza da parte degli investitori. A seguito della risposta cinese, che promette dazi al 125% sui prodotti americani come ritorsione alle tariffe imposte da Washington, e del rischio di un inasprimento dei dazi comunitari da parte dell’UE, anche il debito pubblico americano è diventato più rischioso. La volatilità dei mercati a seguito dell’imposizione dei dazi e la politica di taglio delle tasse proposta dal Presidente Trump hanno ridotto la fiducia degli investitori nella stabilità del debito statunitense, portandoli a vendere i titoli di stato a 10 e 30 anni, il cui tasso d’interesse è passato dal 3.9% al 4.51% tra il 4 e il 9 aprile. In questa data, il Presidente ha quindi deciso di ritirare temporaneamente le aliquote superiori al 10% per tutti i Paesi, Pechino esclusa, al fine di rinegoziare le relazioni commerciali bilaterali e di evitare ulteriori shock per il mercato americano.

In quest’ottica, la stessa natura della politica commerciale dell’amministrazione Trump potrebbe allontanare il taglio dei tassi previsto per rilanciare l’economia interna. Inoltre, la fiducia degli investitori nella stabilità dei titoli di debito americano, storicamente considerati degli asset sicuri, potrebbe ridursi ulteriormente a fronte di una maggiore inflazione derivante dai dazi. Inoltre, non può essere sottovalutato uno scenario in cui alcuni Paesi potrebbero considerare di diversificare ulteriormente la composizione delle loro riserve valutarie e di aumentare le transazioni commerciali in valuta locale, limitando così la necessità di detenere titoli denominati in dollari.

Questa eventualità rappresenterebbe un problema per gli Stati Uniti, dal momento che l’egemonia del dollaro nel sistema monetario internazionale ha rappresentato, a partire dal secondo dopoguerra, uno dei pilastri dell’influenza americana. I motivi per cui il dollaro ha assunto questa funzione sono molteplici, riassumibili nella natura dell’economia americana, in particolare il suo settore finanziario, unico al mondo per liquidità, apertura e dimensioni, il ruolo storico degli Stati Uniti nel plasmare le istituzioni finanziarie internazionali, e il suo utilizzo nel commercio delle materie prime. Questo contesto ha garantito per decenni agli Stati Uniti rendimenti sulle loro attività all’estero maggiori rispetto alle passività, permettendogli di finanziare il debito a tassi scontati e di poter accumulare deficit correnti senza incorrere in crisi della bilancia dei pagamenti. Inoltre, essendo il dollaro americano la valuta cardine del sistema finanziario internazionale, gli Stati Uniti possono utilizzarlo come strumento sanzionatorio, come nel caso dell’esclusione di Russia e Iran dal sistema SWIFT.

Nella medesima ottica di ridurre i rischi sistemici e di riequilibrare l’architettura del sistema monetario internazionale, i Paesi del gruppo BRICS+, inclusa la Cina, hanno sostenuto la creazione di nuove istituzioni multilaterali orientate all’utilizzo di valute locali e, nel lungo periodo, allo sviluppo di una moneta sovranazionale alternativa al dollaro. Questo processo riflette una crescente volontà di affrancarsi dall’eccessiva dipendenza dalla valuta statunitense, percepita come sempre più condizionata da scelte unilaterali di politica economica e strategica da parte di Washington. Consapevole di questa tendenza, durante l’ultima campagna elettorale, il Presidente Trump ha ribadito la necessità di impedire che altri Paesi cerchino di abbandonare il dollaro, arrivando a minacciare tariffe superiori al 100% nei confronti di coloro che dovessero intraprendere tale strategia. Tuttavia, l’attuale politica di dazi dell’amministrazione americana potrebbe ottenere risultati opposti rispetto a questo obiettivo. Infatti, riducendo la fiducia del resto del mondo nei confronti del governo statunitense e del suo ruolo di garante dell’assetto commerciale del libero scambio, sempre più Paesi potrebbero esplorare alternative al dollaro, siglando accordi commerciali che riducano l’esposizione delle politiche americane. Un segnale evidente di questa dinamica proviene anche dalla Commissione Europea che, di fronte all’intensificarsi delle tensioni commerciali, ha avviato un dialogo con la Cina nel tentativo di individuare una via negoziale per evitare un’escalation tariffaria. Tra le ipotesi sul tavolo vi è anche la sospensione dei dazi europei sugli electric vehicles (EVs) cinesi, a testimonianza della volontà di contenere il conflitto commerciale.

Oltre a quanto detto, una graduale frattura dei rapporti commerciali e diplomatici tra gli Stati Uniti e i loro alleati rappresenterebbe un rischio al ruolo del dollaro come riserva internazionale. Si stima infatti che circa il 60% delle riserve globali in dollari siano stabilmente detenute in forma di titoli di debito da Paesi legati agli Stati Uniti tramite accordi securitari. Qualora si sentissero minacciati da politiche commerciali ostili ai loro interessi, questi Paesi potrebbero avere un maggiore incentivo a ridurre l’utilizzo di dollari nelle transazioni commerciali e quindi ad abbassarne la domanda globale. Un processo di questo tipo si è registrato tra gli attori sottoposti a sanzioni statunitensi, tra cui la Cina, che negli ultimi anni ha ridotto notevolmente la quota di dollari rispetto alle riserve totali, passando dal 59% nel 2016 al 25% nel 2023. È ragionevole supporre che non solo Pechino, ma anche altri Paesi, inclusi i membri UE, possano ridurre nei prossimi mesi la quota di dollari detenuti come riserva, riducendo le relazioni commerciali e finanziarie con gli Stati Uniti, con l’obiettivo di subire in minore misura il contraccolpo dei dazi. Questo processo rafforzerebbe l’euro, che ha già subito una forte rivalutazione nella settimana tra il 7 e il 13 aprile, registrando un tasso di cambio sul dollaro di 1.1300, il più alto degli ultimi tre anni, malgrado la previsione di un taglio dei tassi da parte della BCE.

La svalutazione del dollaro, viceversa, dovrebbe rendere più competitivi i prodotti manifatturieri americani, contribuendo a ridurre il deficit commerciale. Tuttavia, questo processo potrebbe non essere immediato, dal momento che una quota sostanziale delle esportazioni americane, circa il 10%, è oggi costituita dagli idrocarburi, beni poco elastici rispetto alle variazioni di prezzo. Un dollaro più debole, quindi, non favorirebbe un aumento della quantità esportata, ma ne ridurrebbe il valore a parità di quantità. Inoltre, la principale ragione del deficit commerciale statunitense va identificata nel forte squilibrio tra un alto livello di investimenti interni e una bassa propensione al risparmio, in ragione della limitata capacità produttiva interna e di una forte domanda, sostenuta dai flussi finanziari internazionali. Una correzione strutturale di questa tendenza pertanto potrebbe verificarsi solo nel lungo termine, e richiederebbe una trasformazione radicale dell’economia americana.

In questo quadro, qualora l’amministrazione Trump decidesse di procedere con la sua politica tariffaria, abbassando ulteriormente la fiducia degli investitori e inimicandosi decine di Paesi, il processo di diversificazione valutaria potrebbe accelerare. Tuttavia, nel breve-medio periodo è difficile immaginare che la maggioranza delle economie globali possa abbandonare il dollaro poiché, ad oggi, non esistono valute che possano rappresentare un’alternativa credibile per il sistema monetario e finanziario internazionale.