La tregua tra Israele e Hamas non avvicina la stabilizzazione
Medio Oriente e Nord Africa

La tregua tra Israele e Hamas non avvicina la stabilizzazione

Di Angela Ziccardi
23.05.2021

Nella notte di venerdì 21 maggio, per mezzo della mediazione egiziana, Israele e Hamas hanno ufficialmente raggiunto una tregua, inaugurando un cessate il fuoco dopo 11 giorni di guerra che hanno portato alla morte di 245 palestinesi a Gaza e 12 israeliani. Nonostante la decisione sia stata accolta con sollievo dall’intera comunità internazionale, è giusto considerare il modo in cui le parti arrivano alla tregua e quanto siano riuscite ad ottenere da questi giorni di conflitto.

A cominciare da Israele, che sostiene di aver inflitto un duro colpo ad Hamas eliminando i suoi principali esponenti. Se l’obiettivo, quindi, era quello di ripristinare la deterrenza dissuadendo Hamas dal continuare il conflitto e allentare le pressioni su Gerusalemme, il governo israeliano ha solo parzialmente ottenuto il suo target. Pur avendo principalmente preso di mira i leader di Hamas a Gaza e intaccato l’infrastruttura bellica dell’organizzazione, le capacità militari del movimento islamico non sono state ridimensionate ed è plausibile ipotizzare una riorganizzazione del proprio arsenale militare, anche in tempi brevi.

Soprattutto, Tel Aviv arriva alla tregua con innumerevoli problemi interni da risolvere. In primis, le accese violenze intercomunitarie scoppiate nelle città miste arabo-israeliane, che hanno dimostrato come la coesione del tessuto sociale israeliano sia tutt’altro che solida. Se i cittadini arabo-israeliani (20% dei 9 milioni di abitanti del paese) avevano temuto un peggioramento del loro status con l’approvazione della legge Stato-Nazione del 2018, che definisce ufficialmente Israele come Stato ebraico, le tensioni scaturite a Gerusalemme Est e lo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas hanno confermato il loro sospetto e fatto esplodere la collera nelle strade, a dimostrazione di come il nodo politico sui rapporti tra le diverse componenti della società israeliana sia rimasto irrisolto. Al contempo, l’intensità dei disordini e l’impreparazione delle forze di sicurezza israeliane nell’affrontarli hanno giocato a favore di Netanyahu, che è riuscito nel suo intento di sfruttare l’escalation per imporsi come figura necessaria per il controllo e la sicurezza del Paese, ovviando al timore di vedersi escluso nella formazione del prossimo gabinetto.

Spostando il focus sulla controparte, proprio la solidarietà emersa tra i palestinesi di tutti i territori divisi dimostra come Hamas sia riuscita ad ottenere dal conflitto più di quanto si aspettasse. Oltre ad aver colto di sorpresa l’esercito israeliano per l’apporto capacitivo di razzi lanciati – 4400 in soli 11 giorni, rispetto ai 3400 sparati in 32 giorni di conflitto nel 2014 – la falange armata del movimento islamico è riuscita a perfezionare la propria capacità balistica. Ciò ha alimentato largamente il senso di insicurezza di Israele, che questa volta si è visto attaccare direttamente al cuore del proprio Stato, sentendosi doppiamente legittimato a reiterare i bombardamenti. Soprattutto, Hamas è riuscito nel suo obiettivo primario – di natura essenzialmente politica – di presentarsi come difensore di tutti i palestinesi in tutti i territori divisi. Intervenendo a difesa di Gerusalemme Est e portando avanti richieste incentrate sulla Città Santa, Hamas ha saputo strategicamente sfruttare la causa politica per mettere definitivamente in un angolo Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Prova del successo di tale strategia sono proprio le inedite insurrezioni emerse nelle città miste di Israele, nonché il consenso ottenuto in Cisgiordania. Tutti elementi a dimostrazione di come l’influenza di Hamas vada ormai ben oltre Gaza, obbligando la comunità internazionale a prendere atto del suo ruolo e a non poter essere più emarginata da qualsiasi tema che la coinvolga.

Di conseguenza, gli undici giorni di combattimento hanno messo in luce punti di forza e di debolezza delle due fazioni. Se Israele ha dovuto fare i conti con inaspettate problematiche di sicurezza interna e disfacimento del tessuto sociale, il presunto compattamento palestinese ha, al contrario, apportato grandi vantaggi solo ad Hamas in termini di propaganda. Due trend in ambivalenza che potrebbero comportare un inasprimento delle posizioni di ambo le parti, spingendole a considerare un nuovo intervento armato per motivi di auto-difesa, nel caso israeliano, come di protezione in quello palestinese. Senza dimenticare che mai come in questo caso l’incognita Gerusalemme rimane al centro della disputa e continua ad alimentarne le tensioni. Tutti elementi che mettono in evidenza come il cessate il fuoco possa rivelarsi una semplice parentesi, a cui potrà susseguire un nuovo scontro diretto.

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