Un’altra domenica di sangue innocente in Egitto. L'intervista al Pres. Margelletti su La Difesa del Popolo

Un’altra domenica di sangue innocente in Egitto. L'intervista al Pres. Margelletti su La Difesa del Popolo

13.04.2017

Dopo il duplice attentato contro i cristiani in Egitto, per il presidente Abdel Fattah al-Sisi diventa sempre più complicato traghettare il paese verso la stabilità politica e sociale. Ne è convinto Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali: «C’è il rischio che con l’incremento delle misure di sicurezza e dei controlli aumentino gli effetti dello stato di polizia già in vigore. D’altro canto, perdere la battaglia contro il terrorismo sarebbe per al-Sisi e per tutto l’Egitto un colpo definitivo sia in termini interni, sia internazionali».

Dopo il duplice attentato contro i cristiani in Egitto, per il presidente Abdel Fattah al-Sisi diventa sempre più complicato traghettare il paese verso la stabilità politica e sociale. Ne è convinto Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali: «C’è il rischio che con l’incremento delle misure di sicurezza e dei controlli aumentino gli effetti dello stato di polizia già in vigore. D’altro canto, perdere la battaglia contro il terrorismo sarebbe per al-Sisi e per tutto l’Egitto un colpo definitivo sia in termini interni, sia internazionali».

Qual è il quadro delle “fazioni” politiche pro e contro al Sisi in questa fase?
«L’opposizione allo stato di emergenza proviene dai gruppi di attivisti per i diritti umani in Egitto, secondo i quali le misure di contro-terrorismo non devono legittimare ulteriormente il pugno di ferro del regime. Lo stato di emergenza potrebbe inoltre esacerbare il malcontento di quel che resta della Fratellanza musulmana e alimentare la retorica estremista dei gruppi terroristici, a cominciare da Lewaa el-Thawra (la Brigata della rivoluzione) fino alla galassia jihadista legata all’Isis e orbitante attorno al gruppo Provincia del Sinai. Di contro, il sostegno alla decisione di rafforzare le misure di sicurezza è arrivato dall’esercito e dagli Stati Uniti di Trump».

Quanto si sta impegnando realmente al Sisi nella lotta al terrore?
«Le misure di anti-terrorismo si sono intensificate dopo l’uccisione del generale Hisham Bakharat, morto in un attacco jihadista il 29 giugno 2015. La legge anti-terrorismo, promulgata nell’agosto dello stesso mese, prevedeva un rafforzamento del sistema giudiziario e la detenzione per gli accusati di finanziare gruppi terroristici o i giornalisti accusati di riportare versioni di attentati contraddittori con quanto affermato dal governo. A questo si aggiungeva una legittimazione dell’uso “giustificato della forza” da parte dell’esercito. Nel nord del Sinai, diverse campagne anti-terroristiche da parte dell’esercito si sono susseguite sin dal 2014. Tuttavia, i risultati non sembrano essere commisurati all’impegno, dato l’aumento e l’intensità degli attacchi».

Quanto “solido” è il potere di al Sisi?
«La transizione del post-Mubarak è più difficile del previsto. In questo momento Sisi è l’unico in grado di riuscire a mantenere con polso fermo il potere: ciò non toglie che tutti i fattori che hanno portato alle rivolte di piazza del 2011 siano ancora presenti, anzi aggravati da una crisi di stabilità e rappresentatività».

Nello scacchiere mediorientale quali sono le relazioni privilegiate dell’Egitto?
«Al momento al-Sisi privilegia le relazioni con Emirati Arabi Uniti e Kuwait per diverse ragioni. Innanzitutto, le partnership tra il Cairo e le due monarchie del Golfo affondano le proprie radici nelle necessità di approvvigionamento energetico e di prestiti finanziari. Infatti l’Egitto, oltre a essere un importatore netto di energia, versa in una grave crisi economica, deteriorata ulteriormente soprattutto dopo il peggioramento dei rapporti con l’Arabia Saudita nel 2015 e la sensibile riduzione del flusso di denaro proveniente da Riyadh».

E al netto delle relazioni economiche?
«La diplomazia egiziana ha trovato due ottime sponde in Emirati e Kuwait anche per quanto riguarda la guerra civile libica. Tutti e tre i paesi sostengono il generale Khalifa Haftar, leader dell’Esercito nazionale libico nonché braccio armato del governo di Tobruk. Nell’ottica di mantenere la stabilità dell’intera regione, al-Sisi si è anche detto a favore del mantenimento del regime di Assad in Siria».

Fonte: La Difesa del Popolo