Lo sviluppo del settore manifatturiero nell’Africa Subsahariana: chiave di volta per l’industrializzazione del continente?
Africa

Lo sviluppo del settore manifatturiero nell’Africa Subsahariana: chiave di volta per l’industrializzazione del continente?

Di Simone Acquaviva
11.12.2019

Nel gennaio 2019 la compagnia automobilistica tedesca Volkswagen ha siglato un’intesa preliminare con il governo etiope per la costruzione di un impianto di assemblaggio di veicoli e componentistica nel Paese. In questo modo, l’Etiopia è diventato il terzo Stato nell’Africa subsahariana a firmare un accordo con il colosso tedesco nell’ultimo anno, preceduta da Ghana e Nigeria. L’interesse delle grandi multinazionali nell’area non riguarda la sola Etiopia ed il settore automobilistico. Nell’ultimo decennio, di fatti, aziende quali Primark, Bosh, H&M e Tesco hanno aperto impianti in Africa, a dimostrazione dell’interesse verso il settore manifatturiero dell’Africa subsahariana.

La manifattura copre una fetta relativamente modesta del PIL dell’Africa Subsahariana (meno del 10% nel 2017), sebbene il trend negli ultimi anni sia in crescita ed il settore attragga il 33% degli investimenti diretti esteri (più di ogni altro, quello estrattivo, secondo, si ferma al 26%). Ad oggi, i Paesi dell’Africa subsahariana verso i quali vengono diretti i maggiori investimenti nella manifattura sono Nigeria, Sudafrica, Angola, Kenya, Costa d’Avorio, Ghana e Zambia, mentre Etiopia e Ruanda sono particolarmente attive ed in rapida ascesa.

Gli Stati dell’Africa subsahariana nutrono un forte interesse allo sviluppo del manifatturiero, consapevoli delle implicazioni positive che questo porta in dote. Vale la pena ricordare come lo sviluppo di una manifattura in grado di assorbire forza lavoro sia storicamente un fattore cruciale nel processo di crescita economica delle società industrializzate. Lo spostamento di lavoratori dal settore agricolo a quello manifatturiero è in grado di generare un aumento dei livelli salariali, dei consumi e di conseguenza dell’entrata fiscale per lo Stato, indirizzata per investimenti in infrastrutture e capitale umano, dando così il via al un circolo virtuoso della crescita.

I Paesi Subsahariani necessitano più che mai di entrare in un percorso del genere, che in prima battuta allevierebbe il problema della disoccupazione giovanile particolarmente pressante dati gli attuali trend demografici. L’impiego di addetti nel settore manifatturiero inoltre genera spill-over positivi anche sul settore agricolo, dove la disponibilità di lavoro è sovrabbondante ed i salari al limite della sussistenza. A livello di bilancia commerciale, l’attrazione di investimenti diretti esteri consente di diminuire la quota di importazioni, alleviando così la dipendenza da moneta estera. D’altro canto, tramite l’esportazione di manufatti aumenta la disponibilità di valuta forte e si allenta leggermente la dipendenza dall’export di materie prime, la cui volatilità di prezzo è sovente causa di shock macroeconomici che periodicamente mettono in difficoltà le singole economie nazionali.

La ragione principale per la quale i governi africani riescono ad attrarre investimenti nel manifatturiero è rinvenibile nell’alta disponibilità di manodopera a basso costo nel continente. Il costo dei lavoro di alcuni Paesi della Regione subsahariana, di fatti, fornisce notevoli incentivi ad spostare parte degli impianti produttivi nel continente africano**.** Per dare un termine di paragone, il salario minimo etiope nel settore tessile è pari a 26 dollari mensili, contro i 95 in Bangladesh, i 207 in Kenya e i 340 in Cina. I bassi salari sono diretta determinazione della scarsa di domanda di lavoro (collegata alla bassa industrializzazione) e dell’alta offerta (legata ai tassi demografici africani). La popolazione dell’Africa subsahariana è destinata a crescere esponenzialmente entro il 2050, ed è composta al 70% da giovani under 30. Entro il 2035 la quantità di persone potenzialmente in età lavorativa dovrebbe superare i 900 milioni, il che rende il continente terreno fertile per la localizzazione di impianti altamente intensivi di lavoro.

Se il costo della manodopera genera una forte attrattiva per i capitali esteri, l’Africa subsahariana, seppur con le dovute differenze di Paese in Paese, continua ad essere considerata come terreno aziendale poco fertile, per via di caratteristiche economiche ed istituzionali che frenano gli investimenti potenziali. La prima di queste è quella legata alla carenza di infrastrutture, sia fisiche (si prenda come esempio il totale di chilometri di ferrovie percorribili, in calo dagli anni ’80), che di distribuzione energetica. Queste lacune moltiplicano i costi riducendo quindi gli incentivi ad investire.

Vi è inoltre un aspetto legato al capitale umano, ovvero l’insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute da un individuo (nell’aggregato da una popolazione), acquisite mediante l’istruzione scolastica, l’apprendimento non formale e sul lavoro. Dal patrimonio (stock) di capitale umano di un Paese dipende la capacità di diversificare, di innovare e la produttività del lavoro. Vari sono i fattori che incidono su tale indicatore, tra questi in particolare il livello scolastico. Non è un caso che la percentuale di giovani tra i 15 e i 24 anni ad avere completato un ciclo primario di educazione sia più bassa del 20% nell’Africa subsahariana rispetto al resto del mondo.

Se un basso stock di capitale umano può rappresentare un freno nella scelta di investire in Africa, è altresì vero che la transizione dal settore agricolo al manifatturiero mette in atto una serie di meccanismi volti ad incrementarne il livello. Lo sviluppo del manifatturiero incentiva di fatti l’urbanizzazione, la quale consente la concentrazione di popolazione in aree dove è più facile offrire servizi pubblici, con possibilità di maggiore efficienza nella diffusione di infrastrutture (fisiche ed energetiche, andando a colmare parzialmente i gap di cui sopra) e soprattutto di scuole. Inoltre, l’apertura di impianti in nuovi settori offre maggiori opportunità di formazione professionale per i lavoratori autoctoni, tramite trasferimento di conoscenza da aziende straniere che contribuisce all’accumulazione di capitale umano nel Paese ospitante.

Lo scarso stock iniziale di abilità professionali quindi, sebbene controbilanci (parzialmente) i benefici dell’alta disponibilità di lavoro e dei bassi salari, non sembra rappresentare una barriera insormontabile per l’attrazione di investimenti diretti esteri, mentre le carenze infrastrutturali presentano un più elevato grado di complessità. Per ovviare, tra le altre, a queste problematiche nel breve periodo, molte nazioni africane hanno cominciato ad investire nella creazione di zone economiche speciali (ZES). Le ZES sono aree  dotate di una legislazione economica differente (normalmente di stampo liberista) rispetto a quella statale, volte ad attrarre investimenti stranieri. Lo sviluppo delle ZES rappresenta uno dei fattori che hanno contribuito alla crescita economica di diversi Paesi asiatici, Cina in primis. In queste zone è possibile creare microclimi favorevoli allo sviluppo industriale, concentrare infrastrutture di qualità superiore, fornire agevolazioni fiscali e aggirare le barriere protezionistiche. Le ZES presentano quindi notevoli vantaggi nell’attrarre capitali, ma risultano efficaci solo qualora vengano utilizzate come strumento temporaneo in vista di una transizione strutturale dal punto di vista economico, ma soprattutto istituzionale. Sono proprio i costi istituzionali, tra i quali l’alto livello di corruzione, criminalità, terrorismo e lacune nel law enforcement, a rappresentare un forte ostacolo nell’attrazione di capitali, ma soprattutto nella distribuzione dei benefici derivanti dalla crescita economica.

Le esternalità negative derivanti dalla struttura economica e istituzionale dei Paesi dell’Africa subsahariana non sono però sufficienti a spiegare quelle che sono le barriere all’attrazione di investimenti nella regione. A giocare un ruolo importante vi è anche la geografia**.** Se è vero, di fatti, che il progresso tecnico ha incentivato la mobilità del capitale riducendo i costi di trasporto, la vicinanza a mercati di sbocco rimane uno dei fattori che incentivano l’attrazione di investimenti diretti esteri. Il fattore geografico, ad esempio, spiega la concentrazione di aziende manifatturiere e di servizi in Paesi come la Polonia (vicina al mercato dell’Europa occidentale, Germania in primis), il Messico (a quello statunitense) ed il sudest asiatico (mercato cinese, giapponese, coreano).

Nel caso africano, la lontananza da grandi mercati di sbocco condiziona negativamente gli investimenti, ma può essere ampiamente compensata con lo sviluppo di un mercato continentale integrato, che ad oggi vanterebbe 1,2 miliardi di persone (oltre 2 miliardi entro il 2050). In tale direzione va letta la creazione dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA). Il trattato che ha istituito l’AfCFTA, siglato nel marzo 2018 ed entrato in vigore l’anno successivo, ad oggi conta la firma di 54 nazioni africane (tutte tranne l’Eritrea). L’accordo è volto alla creazione di un’area di libero scambio in grado di integrare i singoli mercati di beni e servizi dei Paesi africani, con lo scopo di sbloccare il potenziale manifatturiero e così facilitare l’industrializzazione del continente. L’implementazione dell’accordo prevede il livellamento il più possibile vero il basso delle barriere tariffarie, requisito fondamentale per migliorare i volumi commerciali tra i Paesi africani, che ad oggi, proprio per la presenza di alti livelli di protezionismo, si limitano al 20% del totale delle transazioni, dato nettamente inferiore se comparato al 59% delle transazioni intra-asiatiche ed il 70% di quelle intra-europee. In presenza di un mercato africano aumentano inoltre le economie di scala e quindi la possibilità di diversificazione all’interno del continente. Non va inoltre sottovalutata la posizione di (relativa) forza che un blocco unico africano potrebbe avere a livello negoziale con i vari giganti commerciali (USA, Europa, Cina).

Al successo dell’AfCFTA sono quindi legate molte delle prospettive di sviluppo del settore manifatturiero e di crescita dei Paesi della Regione. L’attuazione in termini pratici dell’AfCFTA richiederà indubbiamente tempi tecnici di adattamento vista la complessità di un accordo che ha l’ambizione di tenere insieme un continente molto vasto ed estremamente diversificato a livello economico ed istituzionale. Molto dipenderà inoltre dalla posizione della Nigeria. La più grande economia africana, dopo aver negoziato il trattato, si era ritirata dalla firma salvo aderire lo scorso 7 luglio in occasione del meeting di Niamey. Ad oggi, Lagos non ha ancora ratificato il trattato, e l’assenza di un Paese di 200 milioni di persone, destinato ad essere il perno del mercato integrato africano, sminuirebbe le fondamenta dell’AfCFTA. Più in generale, al di là del singolo caso nigeriano, l’accordo rischia di esser minato dalla pressione della classe economica e politica dominante all’interno dei vari Paesi, che dall’implementazione dell’AfCFTA potrebbe veder messa in discussione le proprie posizioni di potere.

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