Libia, gli interessi strategici degli Emirati
Medio Oriente e Nord Africa

Libia, gli interessi strategici degli Emirati

Di Lorenzo Marinone
26.01.2020

Nonostante gli sforzi della diplomazia internazionale con l’iniziativa russo-turca di Mosca (12 gennaio) e la conferenza di Berlino (19 gennaio), la tregua tra le fazioni libiche, pattuita informalmente nella capitale russa, è stata ripetutamente violata. Se gli scambi di colpi d’artiglieria, benché sporadici, non si erano mai realmente fermati, dopo il summit nella capitale tedesca gli scontri si sono presto riaccesi in quella che appare come una nuova, possibile, escalation.

Il 22 gennaio le Brigate Kani, milizie attive nell’hinterland tripolino e alleate del Generale Khalifa Haftar, leader dell’Esercito Nazionale Libico (ENL), hanno ripreso il lancio di razzi contro l’aeroporto di Mitiga, l’unico ancora funzionante della capitale libica. L’azione è stata organizzata e condivisa con la linea di comando di Haftar, come testimoniato dalla quasi contemporanea avanzata dell’ENL. Infatti, nel corso del fine settimana, le forze della Cirenaica hanno ripreso i combattimenti su vasta scala sia alla periferia sud di Tripoli sia lungo la direttrice Sirte – Misurata.

Dietro questa ripresa delle ostilità è facile individuare il ruolo cruciale del più attivo dei sostenitori esterni di Haftar, gli Emirati Arabi Uniti (EAU). Infatti, nelle due settimane a cavallo della conferenza di Berlino (12-26 gennaio), Abu Dhabi ha dato vita ad un vero e proprio “ponte aereo” verso la Cirenaica, garantendo all’ENL una enorme quantità di rifornimenti bellici. Si tratta complessivamente di quasi 40 voli le tra basi militari emiratine e giordane e quelle di Bengasi e al-Khadim in Cirenaica, tutti compiuti con trasporti strategici Antonov e Ilyushin. Uno sforzo logistico del genere lascia pensare che l’obiettivo non sia, semplicemente, un rafforzamento delle posizioni di Haftar sui vari fronti, bensì quello di prendere il potere con la forza, sfondando le difese della capitale e della città alleata di Misurata.

Un atteggiamento, quello di Abu Dhabi, che fa trasparire la completa sfiducia nei confronti tanto dell’iniziativa diplomatica di Mosca del 12 gennaio quanto dei negoziati avviati a Berlino. Per comprenderne le ragioni, è necessario leggere l’evoluzione dell’approccio emiratino nel contesto dei cambiamenti in atto negli equilibri regionali.

Gli EAU interpretano il loro coinvolgimento in Libia come un capitolo, sempre meno secondario, dello scontro per l’egemonia regionale che li contrappone alla Turchia. In questo quadro, Ankara è percepita come un attore che tenta di sfruttare i rivolgimenti innescati dalle Primavere Arabe per espandere la propria influenza nella regione. Tratto saliente dell’attivismo turco è il supporto a partiti e movimenti di stampo islamista, nella maggior parte dei casi appartenenti alla grande famiglia della Fratellanza Musulmana. Represso o quanto meno tenuto ai margini della vita politica nella regione per decenni, l’Islam politico è stato sposato dalla Turchia per la sua carica apparentemente “rivoluzionaria” nel contesto di regimi autoreferenziali e fondati su forme di controllo capillare del dissenso. D’altronde, nel contesto delle rivolte del 2011, l’islamismo è stato uno dei vettori del malcontento popolare e delle istanze di cambiamento più potenti e meglio organizzati, che ha registrato successi importanti come il trionfo di Ennahda in Tunisia, del Partito Giustizia e Sviluppo in Marocco e del Partito Libertà e Giustizia in Egitto. Proprio l’ascesa di forze politiche “affini” ha costruito la scommessa di Ankara per moltiplicare la propria influenza nella regione. A ben vedere, il supporto turco all’islamismo è consistito in un grimaldello ideale per portare al potere quei partiti che potevano guardare all’esperienza dell’AKP di Erdogan come ad un modello positivo da imitare, e di conseguenza riconoscere un ruolo egemone alla Turchia.

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