L’uccisione dell’Ambasciatore Luca Attanasio e del Carabiniere Vittorio Iacovacci nel panorama insurrezionale nel Congo orientale
Africa

L’uccisione dell’Ambasciatore Luca Attanasio e del Carabiniere Vittorio Iacovacci nel panorama insurrezionale nel Congo orientale

Di Marco Di Liddo
21.02.2021

L’uccisione dell’Ambasciatore italiano Luca Attanasio e del Carabiniere Vittorio Iacovacci, avvenuta il 22 febbraio ad alcune decine di chilometri da Goma, capitale del North Kivu, regione orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) al confine con il Ruanda, ha improvvisamente riacceso l’attenzione internazionale su uno dei focolai di conflitto più violenti, complessi e duraturi di tutto il continente africano.

Da oltre 15 anni, infatti, il North Kivu è uno degli epicentri dell’instabilità nazionale congolese, nonché il luogo dove si è manifestata con maggiore intensità sia la Seconda Guerra del Congo (1998-2003) che i conflitti irrisolti da essa derivata, come la guerra del Kivu (2004 – 2007), l’insurrezione del Movimento 23 Marzo (M23, 2012-2013) e dell’Alleanza delle Forze Democratiche (AFD, 2017-2021).

Nonostante l’enorme ricchezza naturale e mineraria, il North Kivu è una delle regioni più povere, sottosviluppate e fragili del Paese, dove le vulnerabilità sociali rappresentano il principale incentivo alla feroce conflittualità etnico-settaria. Oltre 20 gruppi etnici e relative milizie armate combattono sia contro le Forze governative e i Caschi Blu della missione ONU MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) sia e le une contro le altre per il controllo del territorio e delle sue risorse, in particolare quelle agricole e minerarie. Su tutte, oro, pietre preziose e minerali di importanza strategica per l’industria ad alta tecnologia (coltan).

La dinamica principale degli scontri inter-etnici vede opposti i movimenti armati Tutsi, presumibilmente sostenuti dal vicino governo ruandese, le bande Hutu, che usufruiscono del sostegno finanziario e logistico del Burundi, ed i gruppi anti-governativi Mai Mai. In tutti i casi, casi, il coinvolgimento più o meno diretto dei due Paesi della regione dei Laghi è motivato dalla volontà di destabilizzare la Repubblica Democratica del Congo ed utilizzare le milizie etniche per controllare i traffici illeciti di oro, diamanti e minerali per l’industria ad alta tecnologia.

In questo contesto, negli ultimi 4 anni è cresciuto esponenzialmente il ruolo di un altro movimento armato, vale a dire l’Alleanza delle Forze Democratiche, una milizia multietnica (con sostanziali quote Konjo e Amba) un tempo supportata dall’Uganda e dal movimento islamico Tablighi Jamaat. A partire dal 2015, l’ADF ha intensificato i proprio contatti con la galassia jihadista internazionale, finché una parte dei suoi combattenti ha deciso di giurare fedeltà al Califfo al-Baghadi e fondare così una branca locale dello Stato Islamico (Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale, SIAC). Ad oggi, appare quasi impossibile distinguere le due organizzazioni, il cui tratto peculiare è la tendenza alla statualizzazione e ad un controllo del territorio capillare ed efficace, addirittura superiore a quello delle stesse istituzioni statali.

In un simile quadro, gli attacchi delle milizie etniche contro le Forze Armate congolesi ed il personale sia civile che militare delle Nazioni Unite hanno un significato politico ed economico, teso a ribadire la propria presenza sul territorio allo scopo di proseguire il controllo dei traffici illeciti.

Parallelamente alle organizzazioni insorgenti caratterizzate da una evidente agenda politica, nella regione del Kivu sono presenti bande dedite quasi esclusivamente a attività criminali, come i traffici illeciti, il bracconaggio ed i rapimenti. Tuttavia, la distinzione tra gruppi criminali e movimenti armati su base etnica è semplicemente teorica poiché, in un contesto volatile come quello congolese, l’attività di insorgenza, quella terroristica e quella criminale sono contigue e costituiscono una minaccia ibrida ed unitaria.

Anche in assenza di un quadro informativo esaustivo, l’attacco contro il convoglio delle Nazioni Unite nel quale sono rimasti uccisi l’Ambasciatore Attanasio ed il Carabiniere Iacovacci potrebbe rientrare in questa dinamica ibrida tra insorgenza politica e dissuasione criminale.

Un grosso interrogativo avvolge l’ipotesi circa un presunto tentativo di rapimento ai danni dell’ambasciatore finito in tragedia. Infatti, sebbene in tutta la Repubblica Democratica del Congo simili episodi non siano rari, nessuna milizia si era mai spinta ad attaccare un target di così alto valore politico. Per quanto il personale ONU ritenesse “sicura” la strada percorsa dal convoglio, lascia perplessi la scelta di far viaggiare personalità istituzionali di alto livello senza adeguata scorta armata in quella regione del Paese, infestata da banditi e miliziani.

Accettando l’ipotesi del tentativo di sequestro, occorre comprendere quale tipo di organizzazione abbia tentato di perpetrarlo. Nel caso di una banda di criminali o di una milizia etnica, il movente economico sarebbe preponderante. Infatti, il personale delle Nazioni Unite rappresenta un target molto ambito nell’industria dei sequestri per il suo alto valore “commerciale”. Tuttavia, non si può escludere a priori che si possa trattare di una azione ostile perpetrata dall’ADF / Stato Islamico in Africa Centrale al fine di proseguire il proprio percorso di crescita e “accredito” internazionale. Infatti, sebbene questa branca del Califfato sia una delle più attive ed in espansione nel continente (dal Congo fino al Mozambico), ancora le manca un’azione dalla grande eco mediatica e politico-simbolica. In tal senso, l’attacco al convoglio di MONUSCO rientrerebbe perfettamente in tale strategia.

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