Una rivoluzione pericolosa: la destituzione di Keita e la perdurante fragilità del Mali
Africa

Una rivoluzione pericolosa: la destituzione di Keita e la perdurante fragilità del Mali

Di Marco Di Liddo
23.08.2020

A meno di 8 anni di distanza dal colpo di Stato del colonnello Sanogo e dalla destituzione dell’allora Presidente Amadou Tourè (2012), il Mali torna ad essere il teatro di una transizione istituzionale violenta e avversa a quelle procedure democratiche che lentamente e difficoltosamente cercavano di consolidarsi nel Paese.

Il 18 agosto, le unità militari di stanza presso la base “Soundiata” di Kati (15 chilometri a nord di Bamako), dopo essersi ammutinate, hanno marciato in direzione della capitale, hanno preso il controllo delle maggiori sedi istituzionali ed hanno proceduto all’arresto del Ministro delle Finanze Abdoulaye Daffe, del Presidente del Parlamento Moussa Timbiné, del Comandante della Guardia Nazionale, del Primo Ministro Boubou Cissé ed infine del Capo dello Stato Ibrahim Boubakar Keita. Successivamente, le Forze Armate, riunite nel Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo (CNSP), hanno assunto tutti i poteri e sospeso le attività del governo e del Parlamento, promettendo l’indizione di nuove elezioni generali nel minor tempo possibile ed invitando le principali forze politiche ad avviare le consultazioni per la formazione di un esecutivo di transizione. Inoltre, il CNSP ha dichiarato di voler rispettare tutti gli impegni internazionali del Paese, di tutelare la sicurezza dei cittadini e dei contingenti militari stranieri presenti sul territorio nazionale e di conformarsi al contenuto degli Accordi di Algeri nella gestione dei rapporti con l’irrequieta comunità tuareg del nord. Nel momento in cui si scrive, sussistono ancora molti dubbi sui leader del colpo di Stato, anche se diverse fonti interne maliane indicano gli ufficiali della base di Kati come i principali artefici dell’azione. Tra questi, i Generali Sadio Camara, Malick Diaw (comandante del distretto militare di Kati) e Cheick Fanta Mady Dembélé e il colonnello Mama Seku Lelenta.

Oltre al placet di tutto l’apparato militare, a favorire il colpo di mano dei golpisti di Kati è stato l’indubbio ed ampio supporto popolare, ben rappresentato dalle folle che hanno riempito le piazze e le strade di Bamako, intonando slogan a favore degli ammutinati ed accompagnando la loro azione di forza soprattutto nel controllo degli edifici governativi. Il combinato del supporto militare e della società civile ha spinto il Presidente della Repubblica Keita a rassegnare le dimissioni e rimettere tutti i poteri nelle mani del CNSP, nell’intenzione di evitare un conflitto istituzionale in grado di degenerare in forme più violente e sanguinose.

Gli elementi della crisi politica maliana sinora emersi permettono di affermare che, sebbene le modalità di azione ricalchino il modello del putsch (colpo di Stato militare), il vasto supporto popolare rende la destituzione di Keita un atto rivoluzionario proveniente autenticamente dalla società. Tale analisi risulta avvalorata anche dal recente pregresso del dibattito pubblico maliano, caratterizzato da una crescente polarizzazione e da una sempre più marcata protesta nei confronti del governo di Keita. In questo senso, la rivoluzione maliana del 2020 ha radici profonde e risulta innescata da una serie di fattori di criticità aggravatisi ed esplosi violentemente negli ultimi 6 mesi.

Keita era stato eletto per la prima volta nel 2013, a margine della guerra civile tra il governo centrale e il fronte indipendentista tuareg. Un conflitto che, sin dalle sue prime battute, si era progressivamente trasformato in una insorgenza jihadista guidata dalla galassia di organizzazioni qaediste, ultima delle quali il Gruppo per la Salvezza dell’Islam e dei Musulmani (GSIM) del leader tuareg Iyadh ag Ghaly. Allora, Keita aveva vinto la corsa elettorale con la promessa di pacificare il Paese, riconciliare le diverse anime etnico-tribali presenti in Mali, combattere il malgoverno e la criminalità ed infine risanare l’economia. Nonostante l’esplicito sostegno della ex madrepatria coloniale francese, l’ambizioso piano di Keita non ha mai trovato piena realizzazione e, al contrario, si è confrontato con una realtà politica, economica e securitaria disastrosa ed in costante peggioramento. Infatti, le attività jihadiste sono cresciute in numero ed intensità, arrivando ad allargare lo spettro della radicalizzazione, oltre che alle comunità tuareg, anche a quelle fulani, mentre lo scenario economico ha continuato a subire le vulnerabilità dettate dall’impatto del cambiamento climatico sulla produttività agricola e, di conseguenza, sull’occupazione.  Come se non bastasse, nell’ultimo biennio, sulla figura del Presidente si sono addensate le nubi di una gestione personalistica ed autoritaria del potere, segnata da corruzione, marginalizzazione degli oppositori, violazioni dei diritti umani e pesanti brogli elettorali, in particolare nelle consultazioni presidenziali del 2018 ed in quelle amministrative del marzo 2020. In tutto questo, l’epidemia di Covid-19 è stato il cosiddetto colpo di grazia: la crisi economica scaturita dalla contrazione dei mercati globali e le misure di mitigazione del contagio (lockdown e shutdown) hanno colpito particolarmente il settore agricolo ed i suoi lavoratori (70% della forza lavoro nazionale), causando un repentino impoverimento delle fasce sociali più deboli.

In tale contesto, non è un caso che le massicce proteste popolari siano iniziate all’indomani delle contestate elezioni del marzo scorso e che abbiano chiesto le dimissioni di Keita e di tutti i membri del Parlamento nonché l’organizzazione rapida di nuove consultazioni. Il malcontento sociale maliano ha assunto la forma di un movimento eterogeneo e frammentato (il “Movimento 5 Giugno”), unito dal desiderio di cambiamento e riforma e guidato dall’imam Mamadou Dicko, una personalità politica di primo piano ed alquanto controversa a causa di alcune sue posizioni ideologiche. Nello specifico, Dicko è un imam salafita, ex presidente dell’Alto Consiglio Islamico Maliano, sostenitore del dialogo con i jihadisti e dell’integrazione dei leader ribelli tuareg nell’apparato istituzionale nazionale. Di vedute estremamente conservatrici ed anti-occidentali, Dicko ha più volte sostenuto che il terrorismo rappresenta la punizione divina contro la presunta diffusione sempre maggiore dell’omosessualità e dei costumi occidentali in Mali e che le azioni francesi nel Paese (supporto economico, politico e militare) non sono altro che forme mascherate di colonialismo. Così facendo, Dicko ha unito le frange più estremiste e populiste della società maliana ed ha alimentato quella retorica anti-colonialista ed anti-occidentale che, in forme diverse, rappresenta il fil rouge ideologico delle sezioni più vulnerabili della popolazione. Nonostante Dicko abbia dichiarato di aver esaurito la propria funzione politica pubblica con il successo della rivoluzione maliana e di non voler partecipare al processo di transizione post-Keita, continuerà, presumibilmente, ad esercitare un ruolo di grande influenza sullo scenario sociale, ideologico, religioso e tribale del Paese. In sintesi, anche senza ruoli istituzionali, Dicko continuerà ad essere una personalità in grado di indirizzare significativamente il corso degli eventi politici maliani nell’immediato futuro.

Gli eventi che hanno portato alla destituzione di Keita e alla presa del potere del CNSP denotano come il Mali non abbia appreso la lezione della guerra civile del 2013 e come il processo di democratizzazione sia lungi dall’essere consolidato. Ancora una volta, come spesso accaduto nella storia del Paese e, più in generale, in quella del continente africano, sono state le Forze Armate a guidare i processi di transizione politica nei momenti di crisi, delegittimando ulteriormente le istituzioni civili che si sono dimostrate vittima degli antichi vizi che caratterizzano la vita pubblica nei Paesi africani (corruzione, nepotismo, autoreferenzialità). Per quanto sia lecito aspettarsi che i militari consegnino il potere ai partiti civili nel minor tempo possibile, il fatto che il rinnovamento istituzionale e la spinta riformista passi attraverso la combinazione di un’azione forzosa dell’Esercito e di una rumorosa protesta di piazza lancia numerosi interrogativi sull’ipotetico futuro sviluppo democratico nazionale.

La rivoluzione maliana giunge in un momento molto delicato per il Paese e per l’intera regione del Sahel e rischia di avere impatti significativi sia sotto il profilo interno che internazionale. A livello domestico, la transizione politica e istituzionale maliana dovrà confrontarsi con la perdurante instabilità delle regioni settentrionali di Mopti, Gao, Timbuctu e Kidal, dove il fronte ribelle tuareg non ha abbandonato le sue aspirazioni. Anzi, la crisi in atto a Bamako potrebbe essere interpretata dalla pletora dei movimenti tribali del nord come un’occasione per rilanciare le proprie agende. Dunque, le confederazioni di Timbuctu, generalmente più moderate e disposte al dialogo con il governo centrale, potrebbero spingere per rivedere gli Accordi di Algeri ed ottenere forme di autonomia locali molto accentuate, ispirandosi al modello del vicino Niger. Viceversa, le confederazioni di Kidal, decisamente più radicali, potrebbero approfittare dell’instabilità per forzare la mano delle istituzioni e provare a dichiarare unilateralmente l’indipendenza come accaduto nel 2013. Parallelamente, la confusione che regna a Bamako potrebbe essere sfruttata anche dalle organizzazioni Fulani, decise a migliorare la propria posizione politica all’interno dell’architettura istituzionale e di governance nazionale attraverso il raggiungimento di una maggiore tutela dei propri diritti consuetudinari sulle risorse del suolo.

Sullo sfondo delle possibili evoluzioni dei negoziati tra Bamako e minoranze etniche tribali del nord occorrerà valutare quale sarà il comportamento delle organizzazioni jihadiste. Infatti, dal 2013 ad oggi, le regioni settentrionali del Mali sono diventate l’epicentro del fenomeno terroristico regionale nonché il ceppo iniziale dal quale è partito il contagio radicale in direzione di Niger, Libia del sud e Burkina Faso. La difficoltà del governo centrale nel controllare il territorio e nel rispondere adeguatamente alle sfide politiche, economiche e sociali del Paese sono state le chiavi per il consolidamento dell’estremismo violento in Mali e nel Sahel. Dunque, in un momento di ulteriore fragilità istituzionale come quello odierno, le organizzazioni qaediste e dello Stato Islamico potrebbero aumentare lo spettro e il raggio delle proprie attività, intercettando ulteriormente il malcontento popolare e spingendo su posizioni ideologiche massimaliste non solo le minoranze discriminate, ma anche quei settori della società più vulnerabili e delusi dall’inettitudine degli organi statali e della classe dirigente. In virtù della contiguità tra terrorismo jihadista e rivendicazioni politiche delle minoranze etniche discriminate, esiste un rapporto diretto tra sviluppo del negoziato tra governo e confederazioni tribali e crescita del fenomeno eversivo. Nello specifico, quanto più il dialogo tra tribù ed istituzioni centrali maliane sarà difficoltoso e ruvido, tanto più le organizzazioni jihadiste appariranno come gli unici interlocutori credibili per i leader delle minoranze etniche, determinando così un ulteriore scivolamento delle agende indipendentiste ed autonomiste di Tuareg e Fulani nell’orbita qaedista e dello Stato Islamico.

Qualora questo fenomeno dovesse concretizzarsi, a poco servirebbe il proseguo dell’impegno militare internazionale nel Paese. Missioni come MINUSMA (Mission multidimensionnelle intégrée des Nations unies pour la stabilisation au Mali), Barkhane, EUTM Mali e G5 Sahel Task Force hanno sostanzialmente il compito di migliorare le capacità delle Forze Armate maliane e contrastare la minaccia cinetica costituita dalle milizie jihadiste. Tuttavia, senza una adeguata e parallela azione politica, sociale ed economica in favore delle minoranze discriminate, l’impegno internazionale continuerà a configurarsi come un mero strumento di contenimento e limitazione dei rischi e non di eliminazione dei fattori all’origine della minaccia. Anzi, paradossalmente, in un Mali caratterizzato da un crescente malcontento e aumento di posizioni ideologiche anti-occidentali, i contingenti stranieri potrebbero diventare oggetto di attacchi trasversali provenienti non solo dai movimenti islamisti radicali ma anche da quelle sezioni della società civile più scontente.

Tuttavia, sarebbe un errore focalizzare esclusivamente l’attenzione sul quadro securitario e sulla questione dell’irredentismo etnico e dell’insorgenza jihadista. Il malessere della società maliana è trasversale e riguarda innanzitutto il rapporto tra popolazione ed istituzioni. Dopo gli eventi del 2013, il popolo del Mali ha perso ulteriore fiducia nella sua classe dirigente e nella capacità della Comunità Internazionale di supportare leader in grado di risolvere i problemi del Paese. La rabbia popolare potrebbe essere un viatico per l’ascesa di figure politiche sinora ai margini della scena pubblica o di partiti con agende meno inclini al dialogo con l’Europa rispetto al passato. In sintesi, non è da escludere l’affermazione di movimenti populisti autoctoni che, cavalcando l’onda dell’indignazione popolare, salgano rapidamente al potere e compromettano quei pochi risultati democratici e liberali raggiunti negli ultimi 6 anni.

All’incertezza dello scenario interno corrisponde una eguale instabilità regionale. Una delle lezioni del 2013 è stata sicuramente quella che il Mali rappresenta il barometro della situazione saheliana nel suo complesso. Dove va Bamako, vanno Ouagadougou, Niamey, il Fezzan libico e il nord della Nigeria. Al crescere dei fattori di vulnerabilità in Mali, crescono quelli delle aree geografiche ad esso prospicenti. Innanzitutto, la rivoluzione di Bamako potrebbe diventare un esempio per i Paesi vicini che soffrono simili criticità politiche, economiche e sociali, a cominciare dal Burkina Faso. Quest’ultimo, infatti, vive una replica quasi fedele della crisi maliana: istituzioni fragili e autoreferenziali non riescono a risolvere problemi economici derivati dall’impatto del cambiamento climatico e aggravati dalle lacune di governance del territorio che, in ultima istanza, portano alla proliferazione del jihadismo all’interno delle minoranze etniche discriminate. Anche il Burkina Faso, come il Mali, vanta una triste storia di colpi di Stato militari (l’ultimo nel 2015) ed una crescente polarizzazione dell’opinione pubblica lungo faglie sociali (lotte tra agricoltori e pastori) ed etnico-tribali (conflitto tra Mossi e Fulani). In base a questi fattori, non è da escludere che i movimenti di protesta e le Forze Armate burkinabè decidano di emulare i loro corrispettivi maliani nel momento in cui il governo dovesse dimostrarsi incapace di affrontare la sfida economica e securitaria.

Il peggioramento della situazione di sicurezza del Mali, oltre al Burkina Faso, potrebbe colpire vigorosamente il Niger e, in particolare, le sue regioni occidentali di Tillaberi e Tahoua. Infatti, il Mali rappresenta il retroterra logistico per i gruppi jihadisti attivi in Niger e, dunque, qualora la situazione maliana degenerasse e il fronte terroristico locale dovesse rafforzarsi si potrebbe assistere ad una parallela crescita delle attività eversive in Niger. Un rischio che riguarda direttamente anche l’Italia, in virtù della presenta delle nostre Forze Armate impegnate in MISIN (Missione Bilaterale di Supporto in Niger). In tal senso, la presenza francese nei due Paesi costituisce al contempo sia un elemento di mitigazione del rischio, in quanto le attività di Barkhane rappresentano un backup importante per il dispositivo di sicurezza locale, sia un elemento di moltiplicazione della minaccia in quanto “calamita” naturale per la propaganda jihadista.

La necessità di guidare una transizione civile pacifica in Mali e di evitare la propagazione del contagio nel Sahel guidano l’azione sia degli organismi regionali che della Comunità Internazionale nel suo insieme, purtroppo con alterne fortune. Ad esempio, l’ECOWAS (Economic Community of West African States), sin dallo scoppio delle prime proteste contro Keita e fino al suo arresto, si è proposto come mediatore tra governo, manifestanti e Forze Armate. Tuttavia, la sua tela diplomatica ed i suoi principi di azione sono sempre stati all’insegna del più rigido legittimismo e della difesa del governo in carica. Una scelta facilmente comprensibile in virtù dell’impossibilità, da parte dei Paesi membri, di sostenere movimenti di protesta all’estero senza rischiare di vedere simili dinamiche entropiche replicarsi in casa. Malauguratamente, tale legittimismo travestito da rispetto delle procedure costituzionali (poco ammissibile in un Paese come il Mali, dove le violazioni dei diritti politici e civili sono all’ordine del giorno) ha causato una totale perdita di credibilità agli occhi del popolo maliano.

Allo stesso modo, le prese di posizione in favore di Keita da parte di Francia e Turchia rischiano di inasprire le vena anti-occidentale del popolo maliano, già ampiamente dimostrata dalle veementi proteste popolari scoppiate in occasione delle visite di Macron e Hollande a Bamako, e favorire la diffusione della retorica dei partiti populisti autoctoni. Agli occhi del popolo maliano, infatti, la Francia continua ad essere un attore ostile che persegue poltiiche di impronta neo-coloniale e sostiene, a difesa dei propri interessi, leadership politiche corrotte e autoritarie.

Francia e Turchia evdevano in Keita l’interlocutore privilegiato per la tutela delle proprie agende nella regione. Di conseguenza, la destituzione del Presidente maliano rappresenta un durissimo colpo alla strategia diplomatica di Parigi e Ankara nel Sahel e potrebbe favorire l’ascesa di altri attori percepiti dalla popolazione in maniera più benevola.

Ad esempio la Cina, da tempo interessata a soppiantare Francia, Turchia e, parzialmente, Stati Uniti, come principale interlocutore di Bamako. Non è un caso che il Mali ospiti il maggior contingente militare cinese impegnato in una missione delle Nazioni Unite e che i rappresentanti cinesi si siano dimostrati particolarmente zelanti nel costruire relazioni con le comunità tribali autoctone. In questo senso, il Mali costituisce un laboratorio politico di primo piano per la Cina che, per la prima volta in Africa, intende porsi non solo come partner commerciale ma come attore in grado di contribuire attivamente ai processi di stabilizzazione in teatri a rischio. Così facendo, la grande potenza asiatica proseguirebbe in quel processo di cambiamento della propria immagine internazionale, soprattutto in Africa, scrollandosi di dosso l’etichetta di Stato interessato esclusivamente all’acquisto di materie prime e proponendosi come interlocutore a tutto tondo su questioni economiche, sociali e securitarie. Tuttavia, sulle modalità di stabilizzazione utilizzabili dalla Cina occorrerebbe avviare una riflessione critica, in quanto sinora Pechino si è dimostrata più interessata a normalizzare contesti volatili senza investire significativamente in processi di riforma e democratizzazione.

Nonostante i coni d’ombra dell’azione internazionale, dalle ambiguità francesi sino a quelle cinesi, il processo di stabilizzazione e il percorso di transizione post-Keita in Mali non possono essere affidati alle sole forze politiche nazionali. Infatti, il Paese, ad oggi, non dispone dei mezzi economici e della necessaria serenità sociale per gestire in autonomia tale delicatissima fase della sua storia recente. Questo, però, non vuol dire che gli attori esterni, dall’ECOWAS alla Francia, dalla Cina fino all’Unione Europea debbano “commissariare” le istituzioni maliane ed imporre processi politici invisi alle dinamiche autoctone. Consci degli errori commessi dal 2013 ad oggi, la classe dirigente e la società civile maliana, supportati dai partner regionali ed internazionali, dovrebbero esplorare nuove forme di conflict resolution, conflict prevention e State building. Uno dei primi passi da compiere è, sicuramente, il miglioramento dei meccanismi di governance tanto a livello macro (organi dello Stato) che micro (gestione delle risorse nelle aree rurali). Soltanto in questo modo si potranno recidere le cause alla base tanto del malcontento sociale quanto dell’insorgenza etnica e jihadista. In assenza di un piano di riconciliazione ed inclusione delle confederazioni tribali alienate e delle frange sociali discriminate, il post-Keita potrebbe drammaticamente somigliare al pre-Keita, con effetti deleteri sulla sicurezza nazionale e del Sahel e con l’inevitabile proliferazione di terrorismo, criminalità e traffici illeciti, incluso quello di migranti.

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