Guerra civile e pulizia etnica in Sud Sudan
Africa

Guerra civile e pulizia etnica in Sud Sudan

Di Marco Di Liddo
08.01.2017

Nella prima settimana di dicembre 2016, il Governo del Sud Sudan ha autorizzato la mobilitazione di oltre 4.000 miliziani di etnia Dinka allo scopo di ripristinare l’ordine e la sicurezza nei territori adiacenti alla capitale Juba.

Tuttavia, i miliziani in questione hanno attaccato i membri delle minoranze locali, generalmente definiti come “equatoriani” (abitanti della regione dell’Equatoria), ma appartenenti a una grande varietà di diversi gruppi etnici (Acholi, Baka, Balanda, Didinga, Kakwa, Keliko, Lango, Lokoya, Lopit, Lugbwara, Lulubo, Madi, Makaraka, Mundu, Nyangbwara, Otuho, Pari, Pojulu, Tenet, Toposa). I rastrellamenti compiuti dalle milizie Dinka, che hanno causato la morte di oltre 200 persone e la fuga di altre 120.000, rappresentano soltanto l’ultimo episodio della sanguinosa guerra civile che si protrae nel “giovane” Paese africano dal dicembre 2013 e che appare ben lontana dalla sua conclusione. Il conflitto, scoppiato a causa delle divergenze e della competizione per il potere tra il Presidente Salva Kiir e il Vice-Presidente Riek Machar, sembrava poter essere risolto nell’agosto 2015 grazie alla firma del “Compromise Peace Agreement”, l’accordo mediato dell’IGAD (Intergovernmental Authority on Development) che avrebbe dovuto garantire una più equa ripartizione delle cariche politiche e delle risorse naturali tra i diversi gruppi etnici del Paese. Tuttavia, le tendenze autocratiche di Kiir, la lentezza nel processo di integrazione delle milizie nelle Forze Armate nazionali e la sconsiderata decisione del Governo di riformare la divisione amministrativa del Paese (da 10 a 28 Stati Federali) nominando come governatori degli Stati più ricchi i luogotenenti del Presidente hanno riacceso la miccia dello scontro. Nello specifico, gli scontri più duri si sono susseguiti a Wau, capitale dell’omonimo Stato occidentale, e a Juba, tra il luglio e l’agosto 2016, con un bilancio di oltre 1.000 morti, tra i quali 2 peacekeeper cinesi di UNIMISS (United Nations Mission in South Sudan). Da quel momento in poi, quasi tutto il Paese è stato teatro di una continua guerriglia a bassa intensità che, nel complesso, ha causato almeno 30.000 vittime, 2,2 milioni di sfollati e profughi e che ha contribuito a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita di una popolazione che, su 13 milioni di persone, ne ha quasi la metà che vivono in condizioni di gravissima emergenza umanitaria. La guerra civile sud sudanese può essere considerata un conflitto etnico su più livelli. Infatti, la principale rivalità coinvolge i Dinka (35% della popolazione), gruppo egemone nelle istituzioni politiche e negli apparati economici e militari, e i Nuer (16% della popolazione), prima minoranza nazionale. I primi, capeggiati dal Presidente Salva Kiir, sono inquadrati nell’SPLM / A-IG (Sudan Liberation Movement / Army – In Government). I secondi, sotto la leadership di Riek Machar, hanno nello SPLM / A-IO (Sudan Liberation Movement / Army – In Opposition) la loro formazione di riferimento. Tuttavia, l’estrema eterogeneità etnica del Paese, popolato da circa 64 gruppi differenti, ha fatto in modo che sul territorio proliferassero oltre 40 milizie tribali, ognuna caratterizzata da un’agenda politica indipendente, specchio di secolari conflitti locali minori per il controllo delle scarse risorse naturali, in primis acqua e capi di bestiame. Tali milizie si alleano a seconda delle convenienze alle formazioni Dinka o Nuer per ottenere così dei benefici politico-economici nei confronti dei diretti rivali. Allo stesso modo, può accadere che diverse tribù di uno stesso gruppo etnico siano parte di uno schieramento in uno Stato e lo combattano in un altro, oppure, nei casi più estremi, che una milizia sia in guerra contro tutte le altre per proteggere il proprio territorio. Nel dettaglio, i Dinka e lo SPLM / A –IG possono contare soltanto sul supporto di una parte dei Murle dello Stato di Jonglei, tradizionalmente opposti ai Nuer a causa di secolari conflitti per il controllo dei pascoli e dei bovini, e dispongono delle forze ampiamente più numerose e meglio equipaggiante di tutto il Paese, grazie agli oltre 150.000 soldati (in gran parte inquadrati nelle Forze Armate) e a qualche residuo semovente d’artiglieria e carro armato di fabbricazione sovietica. Il maggior supporto al fronte governativo proviene dall’Uganda che, nel luglio 2016, ha inviato circa 1.000 uomini per proteggere il Presidente Kiir e, soprattutto, per contrastare le milizie del Lord Resistence Army di Joseph Kony attive nella regione orientale del Paese. Al contrario, il fronte ribelle riunito attorno allo SPLM / A-IO può vantare una composizione ben più eterogenea. Tra i gruppi più numerosi occorre segnalare innanzitutto il SSLM /A (South Sudan Liberation Movement / Army) e il Nuer White Army, formato da miliziani Nuer che, pur combattendo contro i Dinka, non riconoscono la leadership di Machar. Inoltre, tra gli oppositori del Presidente Kiir vanno annoverati il South Sudan Federal Democratic Party (SSFDP), composto da miliziani Lotuko attivi a Torit, il South Sudan Democratic Movement (SSDM) e le sue 2 principali fazioni “Cobra”, espressione dei Murle, e “Upper Nile”, in rappresentanza degli Shilluk. Questi ultimi, nell’area di Pibor, sono inquadrati in un’ulteriore milizia denominata “Greater Pibor Forces”. Infine, a completare il mosaico degli insorgenti ci sono le milizie Agwelek, attive nell’est del Paese, i gruppi armati Wau, attivi nell’omonima città occidentale, e i misteriosi salafiti del Movimento Islamico di Liberazione del Raja, sospettati di connessioni con il gruppo jihadista somalo di al-Shabaab. Se fino al 2015 il conflitto tra l’SPLM /A –IG e l’SPL / A-IO si era mantenuto entro i confini di una rivalità prettamente politica, dopo il fallimento del “Compromise Peace Agreement”, i 2 conglomerati di milizie hanno iniziato a darsi battaglia a tutto campo con vasto coinvolgimento di civili. Pertanto, con il passare del tempo, quello che era uno scontro tra 2 eserciti si è trasformato in un reciproco tentativo di genocidio e pulizia etnica, caratterizzato da una sempre più evidente volontà di coinvolgere la popolazione civile e sterminare sistematicamente tutti i membri dei gruppi etnici rivali. Infatti, se si analizzano gli episodi di violenza e gli scontri degli ultimi 12 mesi si nota la diminuzione dei confronti armati tra le milizie e il drammatico incremento nei rastrellamenti e negli attacchi ai villaggi, con esecuzioni di massa, stupri e saccheggi. Il classico spartito di tutte le guerre civili africane. In tali contesti la volontà genocidara risponde sia alla necessità militare di ridurre il potenziale bacino di reclutamento dell’avversario sia quella di modificare gli equilibri etnici del Paese. Per evitare la crescita incontrollata di un simile fenomeno, UNIMISS ha irrobustito il proprio mandato, ispirandosi a quanto fatto da MONUSCO (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la Stabilisation en République Démocratique du Congo) in Congo, e dotandosi di un dispositivo militare più incisivo, non solo votato all’interposizione, ma anche al peace enforcement. In questo modo, il Palazzo di Vetro spera che i Caschi Blu in Sud Sudan possano neutralizzare la minaccia delle milizie più violente e salvaguardare la popolazione. Grazie ad un mandato più incisivo, per esempio, 3 anni fa MONUSCO è riuscita a sconfiggere i gruppi para-militari Tutsi nella regione congolese del Kivu. Tuttavia, l’insorgenza nella Regione dei Laghi aveva dimensioni ben più circoscritte dell’attuale guerra civile sudanese. Dunque, il rischio è che le misure decise dall’ONU risultino insufficienti e che la Comunità Internazionale e l’Unione Africana si trovino costrette a pensare ad una nuova missione di pace per interrompere il genocidio e cercare di avviare il Paese verso la stabilità.

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