Il futuro delle relazioni USA-Iraq e la spirale di tensioni mediorientali
Medio Oriente e Nord Africa

Il futuro delle relazioni USA-Iraq e la spirale di tensioni mediorientali

Di Francesco Salesio Schiavi
24.04.2024

Sembrano riaprirsi le tensioni tra le Forze Armate USA e le milizie filo-iraniane in Iraq e in Siria. Lunedì 22 aprile, un post sul canale Telegram al-Elam al-Harbi (“The War Media”) affiliato alla “Resistenza islamica in Iraq” (IRI) – il brand che raccoglie tutte le milizie irachene filoiraniane operanti a fianco dell’Asse della resistenza nella regione – ha annunciato la ripresa delle ostilità contro le “forze di occupazione”. Quasi in contemporanea con la dichiarazione, le Forze Armate statunitensi stanziate nella regione hanno dovuto affrontare due attacchi separati in meno di 24 ore: un primo raid contro la base militare americana di Kharab al-Jir, nella Siria nord-orientale, con il lancio di razzi dalla città irachena di Zummar; e un secondo contro la base aerea di Ain al-Asad, nella provincia irachena di Anbar, a sud del fiume Eufrate, che ha visto il lancio di almeno due droni. Sebbene non vi siano ancora rivendicazioni ufficiali, l’episodio getta nuove ombre su una possibile ripresa degli scontri tra le Forze Armate USA e le milizie irachene, con tutte le dirette conseguenze sulla sua stabilità – anche alla luce del mutato contesto securitario regionale.

Dal 18 ottobre, infatti, fazioni irregolari irachene filo-iraniane hanno periodicamente minacciato regolarmente le basi americane nella regione, con oltre 180 attacchi lanciati contro il personale e le infrastrutture statunitensi in Iraq, Siria e Giordania. Questi, a loro volta, hanno suscitato la rappresaglia americana, con raid aerei contro obiettivi ad essi affiliati nel territorio siriano ed iracheno. Sebbene una fragile tregua sia in vigore dall’attacco alla base “Tower 22” (28 gennaio 2024), in cui si sono registrate le prime vittime americane dallo scoppio della crisi di Gaza, qualsiasi ulteriore escalation potrebbe rapidamente portare a una ripresa degli scontri.

Una situazione che è resa ancora più volatile dalla nuova fase in cui è recentemente entrato il confronto tra Iran e Israele, con i “botta-e-risposta” sempre più spregiudicati da parte di entrambi i contendenti. Anche in questo caso, l’Iraq non è stato risparmiato: meno di una settimana prima dell’annuncio, lo spazio aereo iracheno è stato attraversato da centinaia di droni e missili iraniani diretti contro il territorio israeliano, alcuni dei quali potenzialmente lanciati dallo stesso Iraq (notizia però prontamente smentita da Baghdad). In questo contesto altamente volatile, il Paese potrebbe essere nuovamente coinvolto nel fuoco incrociato di ciò che si teme sia l’inizio di una guerra regionale che coinvolge paesi che continuano ad avere una forte influenza nel contesto iracheno (in primo luogo, gli Stati Uniti e l’Iran).

La decisione di riprendere gli attacchi è principalmente dovuta all’assenza di progressi da parte del governo nei negoziati per porre fine alla presenza della Coalizione internazionale a guida statunitense in Iraq. I due attacchi si sono verificati infatti il giorno successivo al ritorno in patria del Primo Ministro Mohammad Shia al-Sudani dalla sua recente visita negli USA. Il 15 aprile, il Premier iracheno si è recato a Washington per incontrare il Presidente Joe Biden e altri alti funzionari statunitensi. Il summit, inteso a discutere le priorità comuni e rafforzare il forte partenariato bilaterale, ha fornito l’opportunità ai due leader di ridefinire diversi aspetti delle relazioni tra Washington e Baghdad, in primis l’annosa questione della presenza delle truppe statunitensi in Iraq.

Attualmente sono circa 2.500 le truppe USA schierate in territorio iracheno nell’ambito della “Combined Joint Task Force–Operation Inherent Resolve “(CJTF-OIR), principalmente con compiti di consulenza e assistenza alle forze irachene nelle azioni di contrasto allo Stato Islamico (IS). Tuttavia, gli Stati Uniti dispongono di numerose risorse in Iraq e nei Paesi limitrofi che di recente sono stati utilizzati anche per rispondere alle minacce delle fazioni armate irachene alleate dell’Iran (come Kataib Hezbollah, il gruppo più potente in seno all’IRI, che all’inizio di febbraio ha sospeso i suoi attacchi alle truppe USA dopo la morte di tre figure di alto livello per mano di un raid americano). Per gli iracheni, questa è la parte più controversa dell’attuale rapporto bilaterale: gli Stati Uniti stazionano su territorio iracheno su richiesta del governo centrale, ma agiscano unilateralmente senza l’autorizzazione di Baghdad anche quando rispondono ad attacchi contro le proprie forze.

In ambito securitario, l’Iraq ad oggi dipende essenzialmente dagli USA per la manutenzione e la logistica dei propri sistemi d’arma moderni (come i caccia F-16), la condivisione dell’intelligence, il supporto alle operazioni di contro-terrorismo e l’accesso ai fondi in dollari per la sua economia. Baghdad deve quindi mantenere un rapporto positivo con gli Stati Uniti per la propria sicurezza e stabilità. Gli interessi USA sono invece meno pressanti, sebbene Washington sia determinata ad impedire ulteriori avanzamenti iraniani in Iraq. Il mantenimento di sue truppe nel Paese è quindi considerato una forma di deterrenza: senza la sua presenza militare, gli Stati Uniti temono che in Iraq possa crearsi un vuoto di sicurezza che favorirebbe ulteriormente l’ascesa di gruppi armati ostili nella regione, o che Baghdad possa diventare politicamente più strettamente allineata con l’Iran, minacciando così gli interessi USA in Medio Oriente.

Nel breve periodo, l’interesse di al-Sudani è comunque prima di tutto ad uso interno. Il confronto tra le fazioni della “resistenza” irachena e le forze in capo a Washington ha di fatto posto il governo in una posizione delicata. Di fronte ai ripetuti strikes USA nel Paese, l’opinione pubblica irachena e i partiti politici che formano la base di supporto dell’attuale esecutivo hanno iniziato a chiedere con forza la ripresa del ritiro della Coalizione. Sebbene al-Sudani abbia rilasciato dichiarazioni accomodanti a sostegno di un disimpegno statunitense, suggerendo anche che la minaccia dello Stato Islamico sia diventata gestibile per le forze armate irachene, l’azione del Premier non ha tuttavia portato a soluzioni concrete – prima della sua visita alla Casa Bianca.

A Washington, il Primo Ministro iracheno sperava innanzitutto di portare ad un nuovo passo i negoziati sul futuro della missione militare statunitense in Iraq, definendo potenzialmente una timeline (se non una data effettiva del ritiro) che vincolasse Washington ad un percorso da intraprendere prima di un potenziale cambio di presidenza alla Casa Bianca a fine anno. In secondo luogo, al-Sudani mirava ad evitare ulteriori azioni unilaterali degli Stati Uniti in Iraq – che si tratti di sanzioni contro figure di spicco irachene, pressioni sulle attività finanziarie delle banche del Paese mediorientale o attacchi aerei contro gruppi armati – senza il permesso del governo di Baghdad.

Da parte sua, Biden ha evitato un’ulteriore intensificazione delle ostilità nel Paese mediorientale in vista delle elezioni di novembre 2024, pensando che al-Sudani possa dimostrarsi come un potenziale e interessato interlocutore nei confronti dell’Iran. In particolare, il Presidente statunitense vorrebbe delle garanzie da parte di Baghdad nel suo impegno ad impedire ulteriori attacchi da parte di gruppi armati iracheni contro le truppe e le strutture statunitensi nella regione, a prescindere da quale sarà la futura configurazione della presenza americana nel Paese. Agli occhi del Presidente Biden, questa garanzia rimane una priorità assoluta.

Nonostante il generale successo delle riunioni e le alte aspettative irachene sui risultati ottenibili in termini di supporto e sicurezza, dal summit non sono però emerse dichiarazioni ufficiali sul calendario dei negoziati e sulle condizioni per il mantenimento della presenza militare statunitense in Iraq. L’unico risultato tangibile su questo fronte è stata la mutua volontà di rimettere la questione all’alta commissione militare Stati Uniti-Iraq (HMC), che avrà il compito di valutare il contesto securitario e la capacità militare irachene, i rischi posti da IS, e ritagliare su questo una potenziale roadmap per il futuro della missione della Coalizione nel Paese. Dopo una prima riunione a gennaio, la seconda riunione di questa commissione è prevista per luglio. I due leader prevedono inoltre di riunire il Joint Security Cooperation Dialogue (JSCD) entro la fine dell’anno per discutere il futuro del partenariato bilaterale Stati Uniti-Iraq in materia di sicurezza.

In ogni caso, l’Amministrazione Biden si era da subito dimostrata restia a sbilanciarsi nell’annunciare una data di ritiro, non volendo apparire costretta ad abbandonare l’Iraq sotto pressione armata iraniana, in un momento di crescente crisi regionale e memore di quanto già avvenuto in Afghanistan nel 2021. Non da ultimo, l’incontro a Washington si è svolto sotto la nube d’incertezza sul futuro di entrambi i governi nei prossimi diciotto mesi. Da un lato, il Presidente Biden ha preferito non rischiare di impegnarsi in un percorso di lungo periodo con Baghdad prima dell’appuntamento elettorale di novembre. Dall’atro, l’Iraq sarà nuovamente sotto elezioni nel 2025, e il Primo Ministro al-Sudani avrà bisogno del sostegno sia dei suoi sostenitori nazionali sia degli Stati Uniti per rinnovare il proprio mandato. Come dimostrano i fatti del 21-22 aprile, la mancanza di progressi tangibili sul ritiro delle truppe di Washington dall’Iraq può però fornire ai critici di al-Sudani un incentivo maggiore per rimuoverlo o impedirgli di ottenere un secondo mandato.

Alla luce di questi risvolti, la sfida più grande che oggi incombe sul futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Iraq è trovare un compromesso tra l’incapacità del governo locale di prevenire gli attacchi contro le strutture statunitensi nel Paese e la possibilità che gli Stati Uniti tornino a compiere azioni di ritorsione su suolo iracheno – in violazione della sovranità di Baghdad. Fino a quando questo problema circolare non sarà risolto, la presenza di truppe americane in Iraq continuerà a essere fonte di controversie. Per questo motivo, un’effettiva ripresa degli attacchi contro truppe e strutture statunitensi in Iraq o nella regione (come da poco successo), unita alla “spada di Damocle” di una potenziale rappresaglia americana, pongono un serio rischio per la stabilità dell’Iraq, con il pericolo conseguente di portare a ulteriori escalation militari che danneggino seriamente il rapporto bilaterale.

La situazione attuale è complessa e di difficile risoluzione ed entrambi gli attori comprendono bene il contesto operativo e politico di riferimento nel quale avvengono queste evoluzioni. Ciò che accadrà nei prossimi mesi sarà pertanto fondamentale per dimostrare se sarà veramente possibile trovare una soluzione che rispetti i rispettivi tempi e interessi.

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