Geopolitical Weekly n. 300

Geopolitical Weekly n. 300

By Giulia Guadagnoli and Giulia Lillo
07.12.2018

Eritrea

Domenica 8 luglio, dopo vent’anni di ostilità, si è tenuto lo storico incontro, ad Asmara, tra il Presidente Isaias Afewerki e il Premier etiope Abiy Ahmed. La visita giunge dopo un mese dalla piena accettazione, da parte dell’Etiopia, dell’Accordo di pace di Algeri del 2000, che metteva fine alla guerra tra i due Paesi e che prevede il ritiro delle truppe etiopiche da tutti i territori di confine riconosciuti all’Eritrea, in primis dalla città di Badme, occupata dalle Forze Armate di Addis Abeba. A tale iniziativa il Presidente eritreo aveva risposto il 20 giugno, decidendo di inviare i propri rappresentanti nella capitale etiope per valutarne in maniera diretta gli effettivi sviluppi e per delineare un piano d’azione a fronte del nuovo approccio da parte della leadership etiope.

Il percorso di pace intrapreso attualmente dalle due parti prevede la riapertura delle ambasciate nelle rispettive capitali, il ripristino delle linee telefoniche internazionali che erano state tagliate tra i due Paesi e la concessione dei porti eritrei alle compagnie e alle merci etiopi.

Dopo la fine del conflitto, costato la vita a quasi 80.000 persone, Eritrea ed Etiopia hanno vissuto una situazione di stallo per via del rifiuto da parte di Addis Abeba del riconoscimento del confine tracciato dalla competente Commissione Onu; da allora, l’area di frontiera era rimasta altamente militarizzata e gli scontri frequenti.

La ratifica degli accordi di pace da parte dell’Etiopia e l’iniziativa politica che ne consegue  potrebbe essere interpretata sia come uno strumento per risolvere la cinquantennale conflittualità  tra i due Paesi sia come un mezzo per aumentare l’influenza di Addis Abeba sull’Eritrea tramite la leva diplomatica ed economica. Infatti, uno dei principali obbiettivi di Abiy Ahmed è quello di riottenere avamposti marittimi sul Mar Rosso, di cui l’Etiopia è priva da quando Asmara ha ottenuto la propria indipendenza nel 1993.

Pakistan

Mercoledì 10 luglio a Peshawar 20 persone sono morte in un attentato ad una manifestazione politica del Partito Nazionale Awami (ANP), partito in prima fila nell’opposizione ai talebani e ad altri gruppi islamisti operativi nel Paese. Tra le persone uccise c’era anche il leader dell’ANP Haroon Bilour, candidato alle elezioni legislative del prossimo 25 luglio. L’attacco è stato rivendicato dal Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), la coalizione di gruppi di insorgenza in lotta contro le autorità di Islamabad che la propria roccaforte tra le Aree Tribali (Federally Administrative Tribal Areas – FATA) semiautonome nel nord-ovest del Pakistan e le regioni orientali dell’Afghanistan. Quello di mercoledì costituisce il primo grande attentato del TTP dopo la recente morte del leader Fazlullah, rimasto ucciso lo scorso 14 giugno durante un attacco drone statunitense nella provincia afghana di Kunar. Ciò potrebbe evidenziare che la militanza talebana pakistana stia cercando di ritrovare un vigore che sembrava essersi affievolito negli ultimi quattro anni, sia per le operazioni militari condotte dalle Forze Armate pakistane nelle FATA sia perché Fanzlullah non era mai stato riconosciuto come un leader carismatico in quanto proveniente da una famiglia esterna alle tradizionali stirpe di potere. Il nuovo leader Mufti Noor Wali Mehsud, che appartiene invece alla tribù che ha espresso la leadership talebana fino alla nomina di Fazlullah, potrebbe invece essere in grado di sopperire alle mancanze di rapporti locali e capacità operative  del predecessore per riprendere le attività dell’insorgenza nel Paese.

La minaccia alla sicurezza è destinata ad influenzare l’esito delle imminenti elezioni, che si svolgeranno il prossimo 25 luglio. Questo dossier si innesta su una campagna elettorale già particolarmente accesa, in cui il partito do governo uscente, il Pakistan Muslim League- Nawaz (PML-N) si trova a dover gestire una pesante crisi di credibilità in seguito alla condanna del proprio leader, ed ex Primo Ministro, Nawaz Sharif, e della figlia, Miryam, per corruzione. Il rpncipale sfidante, Imran Khan, leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI), sta puntando proprio sull’eliminazione della rampante corruzione all’interno del Paese per erodere il bacino elettorale del PML-N e aggiudicarsi così una storica vittoria.

Regno Unito

Lo scorso 9 luglio, il Ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ed il Segretario di Stato per la Brexit David Davis si sono dimessi dall’esecutivo e sono stati sostituiti rispettivamente da Jeremy Hunt, ex-Segretario alla Salute, e Dominic Raab, ex-Ministro per la Casa e la Pianificazione. Entrambi hanno motivato le proprie dimissioni per le divergenze d’opinione con il Primo Ministro Theresa May in merito alle negoziazioni della Brexit. Sia Johnson che Davis, infatti, hanno espresso dure critiche contro la decisione della May di procedere ad una “soft Brexit”, opposta alla loro idea di “hard Brexit”. La prima delle due linee negoziali prevedrebbe l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, costituendo tuttavia un’area di libero scambio con i 27 membri e preservando la libera circolazione delle persone.

Se tale motivazione può giustificare in larga misura la scelta di Davis, il discorso su Johnson potrebbe piuttosto attenere a dinamiche interne di partito, relative alle sue ambizioni alla leadership dei Conservatori. Nonostante le sue dimissioni potrebbero andare ad indebolire seriamente la capacità della Premier di tenere unito l’esecutivo, è difficile che si verifichi nel breve termine un’eventuale cambio di vertice interno al partito promosso dal fronte degli “hard-brexiters”. Infatti, ad oggi, la maggioranza dei conservatori sostiene ancora l’operato di Theresa May. Inoltre, un aumento del livello di instabilità politica farebbe ulteriormente perdere al Regno Unito capacità negoziale nei confronti di Bruxelles, in un momento estremamente delicato per le negoziazioni. Dunque, appare più verosimile che la strategia di Johnson sia quella di attendere il termine delle trattative, rafforzando nel frattempo il fronte “sovranista” interno ai Tories, per poi tornare a reclamare la leadership in un momento più favorevole.

Somalia

Il 7 luglio un attentato suicida ha colpito la sede del Ministero dell’Interno a Mogadiscio, causando la morte di almeno 20 persone e il ferimento di altre diverse decine. A rivendicare l’attacco è stato il movimento jihadista Harakat al-Shabaab al-Mujaheddin (HSM, o semplicemente al-Shabaab), gruppo attivo dal 2006 ed affiliato al network di al-Qaeda. All’indomani dell’accaduto, le indagini delle autorità hanno condotto all’arresto di 14 funzionari pubblici con l’accusa di favoreggiamento al gruppo terroristico.

Nonostante il progressivo indebolimento subito dal 2011, dovuto alla perdita dei principali centri urbani (Mogadiscio, Baidoa, Kisimayo) grazie all’azione congiunta delle Forze Armate e delle truppe della missione dell’Unione Africana AMISOM (African Union Mission in Somalia), al-Shabaab continua a rappresentare la principale minaccia alla sicurezza e alla stabilizzazione del Paese. Infatti,  il movimento controlla ancora ampie porzioni di territorio nelle regioni meridionali e settentrionali del Paese, dove può contare sul parziale supporto della popolazione locale, ed è in grado di condurre attacchi complessi.

La resilienza di al-Shabaab costituisce la più importate sfida politica e securitaria per il nuovo Presidente Mohamed Abdullahi “Farmajo” Mohamed, leader del partito nazionalista Tayo, eletto nel febbraio 2017. L’ambizioso nuovo Capo dello Stato, deciso a riformare il Paese neutralizzando al-Shabaab e combattendo l’influenza dei clan nella politica nazionale, ha sottolineato la volontà di liberare la Somalia dalla minaccia jihadista entro il 2020, permettendo così il ritiro di AMISOM. Tuttavia, la deficitaria situazione in cui vessano le Forze Armate somale, le resistenze dei clan e degli Stati Federali somali ai progetti centralisti di Mohamed e le capacità operative ancora in possesso di al-Shabaab rendono le aspirazioni presidenziali difficili da realizzare. Proprio l’avversione dei clan al progetto politico di Mohamed potrebbe favorire la resistenza di al-Shabaab, favorito dalle divisioni interne al fronte governativo e probabilmente sostenuto da quelli esponenti clanici decisi ad usare la sua campagna terroristica per indebolire il governo centrale.

Tunisia

Domenica 8 luglio due veicoli della polizia tunisina sono caduti in un’imboscata durante un pattugliamento intorno a Gar Dimaou, nella regione di Jendouba, nel nordovest della Tunisia e al confine con l’Algeria. Il primo mezzo è stato colpito da una granata, mentre sul secondo è stato aperto il fuoco, con un bilancio finale di nove agenti della Guardia Nazionale morti.

L’attacco è stato rivendicato dalla Katiba Uqba ibn Nafa (KUIN), la colonna tunisina di Al Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM). Questo gruppo jihadista dal 2012 porta avanti una guerriglia sanguinosa nella zona montuosa nord-occidentale, in particolare nei governatorati di Kasserine, Kef, Jendouba, Sidi Bouzid, e Gafsa.

Tale attacco può essere considerato il più grave dopo quelli del 2014, quando furono sferrate offensive contro due basi delle forze di sicurezza nella regione centro-occidentale del Monte Chaambi, che rappresenta la tradizionale roccaforte del KUIN,  e un attacco contro l’abitazione del Ministro degli Interni, che videro la morte di circa una ventina di persone.

Nonostante l’intesa opera di repressione da parte delle autorità tunisine, le attività di KUIN continuano a essere agevolate da diversi fattori. In primo luogo, dall’abbondanza dei canali di rifornimento e finanziamento garantiti dal traffico di armi e stupefacenti. Infatti, la zona del Chaambi costituisce uno dei principale punti di transito di armi, miliziani e droga provenienti dal Sahel e dall’Algeria. Non si può poi escludere che vi sia un rafforzamento, per quanto contenuto, dovuto al ritorno di foreign fighters. Tuttavia, l’influenza che il gruppo estremista è riuscito ad ottenere fa leva soprattutto sullo sfruttamento delle debolezze socio-economiche strutturali di quelle zone, che il governo centrale non è mai riuscito ad attenuare. La marginalizzazione delle aree nord-occidentali, che si manifesta con il forte tasso di disoccupazione, con il difficile accesso all’istruzione e con l’isolamento delle classi meno abbienti e delle giovani generazioni, ha portato ad un senso di insoddisfazione popolare di cui il gruppo estremista islamico può beneficiare in primis per quanto riguarda l’arruolamento di nuove reclute.

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